Allevi, tra tradizione e contemporaneità

Intervista al compositore marchigiano dopo il successo del suo concerto romano all’Auditorium Parco della Musicadi Concita De Simone

Le 3mila persone presenti domenica 22 ottobre nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica (molte di loro hanno aspettato in coda fin dal pomeriggio) hanno tributato un enorme successo a Giovanni Allevi, che ha presentato dal vivo il suo nuovo album “Joy”, oltre a riproporre il brano “Come sei veramente” (tratto dal cd “No Concept”), che, grazie ad uno spot pubblicitario, lo ha fatto conoscere a un vasto pubblico. Diplomato in pianoforte con il massimo dei voti al Conservatorio “F. Morlacchi” di Perugia, e in composizione con il massimo dei voti al Conservatorio “G. Verdi” di Milano, e laureato con lode in filosofia con la tesi “Il vuoto nella Fisica Contemporanea”, Allevi rielabora la tradizione classica europea aprendola alle nuove tendenze pop e contemporanee. Noi di Roma sette lo abbiamo incontrato in un colloquio a ruota libera dai toni intimisti. Ed eccolo Giovanni Allevi: tanto estro quanti capelli; natali ad Ascoli Piceno nel 1969, cresciuto a pane e Turandot, con la mania di trasformare i nomi delle persone in melodie musicali (in un sistema tra musica e alfabeto). E che riesce a dare note anche a un attacco di panico.

Le note di copertina del tuo album, raccontano di come siano nate le ultime melodie. Sembra qausi l’incipit di un romanzo, invece è tutto vero…
È accaduto il giorno del rientro dal tour in Cina. Ho avuto un attacco di panico, un’esperienza che mi ha fatto riflettere e della quale me ne sono fatta una ragione. Era quasi inevitabile perché ero ancora molto emozionato e felice. Sono stato raggiunto dal tutto. Non è stato un incontro con un vuoto paralizzante, ma con un pieno eccessivo, tant’è che “panico” viene dal greco pan, cioè tutto. E il mio processo creativo musicale, da quel momento, ha subito una modifica, ad esempio si è alzato il volume della musica nella mia testa e tutto il vissuto emotivo e con lui una marea di note, mi hanno raggiunto.

Tu racconti di aver registrato “Joy” senza averlo mai suonato prima, ma solo nella tua mente. Ci hai messo 5 giorni, 10 ore al giorno. Ma che rapporto hai con il pianoforte?
Io non ho il pianoforte a casa, perché a Milano vivo in un piccolo bilocale. Così ho sviluppato un procedimento di studio attraverso la concentrazione, in una tastiera immaginaria. Ho scoperto che la facoltà che mettiamo in gioco quando suoniamo il pianoforte, è proprio la memoria tattile. E allora attraverso la concentrazione ripasso i circa trentaseimila movimenti che costituiscono un’ora di concerto. Quando questa sequenza è perfettamente a fuco, allora sono pronto per salire sul palco. Ed è solo lì che incontro il pianoforte e dunque, ogni volta, sono molto emozionato.

So che al tuo primo concerto a teatro sono venuti 5 spettatori compresi i parenti. Adesso riempi sale in tutto il mondo. Che sensazione è?
Ho cercato, da filosofo, di spiegarmi come faccia a scatenarsi tutto questo affetto intorno al mio pianoforte. Ho capito che l’essere umano, al di là delle differenze culturali e geografiche, possiede delle emozioni e le vive intensamente. Però, siamo sempre portati tutti a giudicare le emozioni e incasellarle. Allora, sullo spunto della musica, che ha sempre un impatto emotivo forte, le persone possono ricominciare a tirar fuori le emozioni. Così lo spettatore diventa protagonista. La mia è una musica semplice, dove però la semplicità è una complessità risolta. Ci sono dieci anni di studio di pianoforte e altri dieci di composizione dietro. Io non voglio fermarmi alla semplicità, perché rischierei di essere banale. E voglio che si percepisca il lavoro che c’è dietro, che non è solo lo studio, ma anche il confronto con i grandi del passato.

A proposito del tuo album, tu parli di una «nuova spiritualità contemporanea, fresca ed inedita». Cosa intendi?
Parto da una frase del teologo Turolodo che dice: «Ogni mattina inizia un giorno che non ha ancora vissuto nessuno». Ogni giorno si può inventare, dunque, qualcosa di nuovo. Molti critici “barboni” sostengono che nella musica è già stato scritto tutto e accusano la società contemporanea scambiando per crisi degli altri la crisi che hanno nella propria testa. Io, invece, rivendico l’autenticità del contemporaneo. C’è una spiritualità europea che deve essere interpretata artisticamente. Faccio un esempio: se penso a un’epoca del passato, come l’inizio del Novecento, penso agli Impressionisti; se penso al Seicento mi immagino un quadro del Caravaggio. È l’arte che mi dà il sapore di un’epoca. La nostra epoca invece ancora non è rappresentata dall’arte. Noi artisti abbiamo il compito di dare voce alla nostra epoca. L’arte può servire ad avvicinare l’uomo al suo tempo.

Sarai impegnato anche come ospite speciale di Ligabue in alcune date del suo “Nome e Cognome Tour/06”. Ma non sei nuovo alle collaborazioni con gli artisti rock/pop.
Sì, all’inizio suonavo con Jovanotti, che nel 1997, con la sua etichetta Soleluna, decide di pubblicare il mio primo album per pianoforte. Il filosofo Heidegger dice che la categoria principale dell’esistenza è l’esserci; quindi è importante che io esca dalla mio isolamento di compositore e mi confronti con il mondo, perché se io voglio comunicare qualcosa a qualcuno, devo avvicinarmi. Così, dopo un concerto di Ligabue a Milano, ci siamo incontrati e lui ha pensato di farmi conoscere anche al suo pubblico, diametralmente opposto dal mio.

27 ottobre 2006

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