Antonio Pennacchi: la nostalgia della fede
A colloquio con il vincitore dell’ultimo Premio Strega, in occasione dell’incontro con i malati del Gemelli. «Il nostro compito è restituire quello che abbiamo ricevuto, fino in fondo» di Andrea Monda
«Io vengo dalle paludi. In questa società conformista non posso che essere d’intralcio, un corpo estraneo alquanto incomprensibile». Così si difende Antonio Pennacchi dall’accusa di revisionista che qualcuno gli ha mosso a causa del suo ultimo romanzo, “Canale Mussolini”, pubblicato da Mondadori e vincitore dell’ultimo Premio Strega. «Revisionista – afferma – è chiunque scriva di storia, perché non si accontenta della storia così come gli è stata proposta e va con i suoi studi e i suoi scritti a verificarla. Quindi in teoria non ci sarebbe nulla di male, ma in questo strano Paese che è l’Italia, “revisionista” è diventato un insulto, un modo per discriminare, marginalizzare, come a dire piuttosto “revanchista”, e quindi non lo accetto».
«Il mio giudizio sul ventennio fascista – sottolinea Pennacchi – è chiaro ed è nel suo complesso negativo: una dittatura che priva della libertà, che discrimina a livello razziale e che dichiara in modo incosciente una guerra che poi perde non può essere considerato globalmente come un’esperienza positiva. Ma questo non toglie che in quegli anni sono state fatte anche delle cose positive, come ad esempio la bonifica dell’Agro Pontino che fa da sfondo alla mia storia. Ho voluto, anzi ho sentito il dovere – prosegue lo scrittore – di raccontare questa storia, quei fatti così come mi sono stati raccontati dai protagonisti di quelle vicende, i miei nonni, i miei zii e genitori; è la storia di quelle paludi, di quelle terre recuperate e date ai poveri, una storia epica, che meritava di essere raccontata. Avevo un debito con quella terra, con quella gente, con quella natura. È una storia che ricorda l’Esodo biblico, solo che qui la terra promessa non è stata trovata bella e pronta, ma prima è stato necessaria costruirla con le proprie mani: le popolazioni (veneti, friulani, ferraresi…) che sono arrivate in quelle terre le hanno dovute strappare all’acqua, realizzando da un inferno un giardino terrestre. Non capisco perché questo dovrebbe venire etichettato come “revisionismo”».
Antonio Pennacchi si scalda facilmente, lo ammette lui stesso mentre è protagonista dell’incontro pubblico svoltosi lunedì 13 dicembre al Policlinico Gemelli all’interno del ciclo “Il cielo nelle stanze” che prevede l’intervista ad alcuni scrittori italiani nella hall dell’ospedale videotrasmessa in diretta nelle stanze dei malati. Per lo scrittore laziale è un grande piacere tornare al Gemelli, dove è stato ricoverato e operato al cuore otto anni fa. Al termine del momento pubblico esprime il desiderio di recarsi proprio nel reparto di cardiochirurgia, per un singolare tuffo nel passato.
«Molti descrivono l’ospedale come un luogo infernale, così come anche la fabbrica è dipinta a tinte fosche. Io ho vissuto a lungo in entrambi i luoghi – spiega – e posso dire che sono luoghi in cui si vive. Non esistono posti belli o brutti, ma tutto sta nel come si vive in quei luoghi, qual è il nostro atteggiamento nei loro confronti. Si può essere felici anche ammalati, perché la vita è bella anche se stai male, perché non stai da solo, perché trovi le risorse dentro di te e grazie agli altri, anche dagli altri da cui dipendi. Sono esperienze formative che ti dicono che non sei immortale oppure onnipotente, che ti trasformano; e più della terapia può contare un sorriso, uno sguardo, la gentilezza di chi si prende cura di te. Come dico spesso ai ragazzi nelle scuole: non siamo padroni della nostra vita, il nostro compito è restituire quello che abbiamo ricevuto, fino in fondo, lottando fino all’ultimo minuto perché, come dice l’allenatore Boskov, la partita finisce solo quando l’arbitro fischia, non prima. Non mollare e non risparmiarsi, mai».
Per Pennacchi anche la lettura di un libro può rivelarsi un’esperienza formativa. Mentre percorriamo i corridoi della cardiochirurgia cita Aristotele e la sua teoria della catarsi: «Se un libro è scritto bene, il lettore s’immedesima nei personaggi e vede il male che essi compiono o subiscono e si rendono conto che potrebbe capitare a loro la medesima sorte. Questo colpisce in fondo l’anima del lettore e la trasforma. Questa è la responsabilità individuale, morale e sociale dello scrittore».
Da questo punto di vista Pennacchi non si dimostra molto soddisfatto dei libri attualmente in circolazione ma tiene a sottolineare che nel 2010 è uscito un ottimo romanzo, “Storie della mia gente” di Edoardo Nesi. Quando invece deve citare le fonti d’ispirazione per il suo romanzo ricorre a libri di qualche tempo fa: «Certamente “Il mulino del Po” di Riccardo Bacchelli, ma anche “Il placido Don” di Solochov, “Il grande sertao” di João Guimarães Rosa, “Guerra e pace”, “Il Dottor Zivago” e, perché no, “Via col vento”».
Si dice non credente in un Dio rivelato, ma sicuro di un al di là come di una presenza di qualcosa di più grande, di sacro, nella natura: «Ho quella che Momigliano chiamava la nostalgia della fede e, inoltre, credo nella forza dei riti e nel valore terapeutico della preghiera. Penso che tutti dovrebbero vivere “come se Dio ci fosse” perché questo può fare del bene alla nostra vita, di cui non siamo padroni. Anche per questo la sera prima della mia operazione qui al Gemelli andai in cappellina a pregare la Madonna». Ed è proprio in cappellina che, dopo il giro in reparto in cardiochirurgia, il sanguigno uomo delle paludi pontine, ha preferito tornare, da solo.
14 dicembre 2010