Benedetto XVI nel campo dei rifugiati palestinesi

La visita in una realtà, a due chilometri a nord di Betlemme, che ospita circa 5000 persone, tra cui moltissimi bambini da Betlemme Mariaelena Finessi

Situato a due chilometri a nord di Betlemme e uno a nord di Beit Jala, proprio al centro della West Bank, l’Ayda (conosciuto anche come Aida) è un campo profughi. Così chiamato ricordando la maqhah del posto, rinomata caffetteria in voga nei primi anni Quaranta. In questo 13 maggio Benedetto XVI, pellegrino in Terra Santa, ha scelto di venire ad incontrare una realtà tremenda e, purtroppo, non sporadica.

In Palestina, infatti, ci sono 61 campi e tre di questi si trovano nei pressi di Betlemme: Duheisheh, El Azah e appunto Ayda. Prima del 1948, la gente di qui viveva nei villaggi intorno a Gerusalemme. Cacciati via dalle proprie case, rase al suolo dai militari per dare spazio al nascente Stato israeliano, in migliaia sono stati costretti a scappare. Accampati alla meglio in tende provvisorie, la speranza era che da lì a poco ci si facesse carico della loro tragica condizione. Naqba la chiamano qui.

Come spesso accade però, ciò che nasce come temporaneo diventa definitivo. Sono intervenute allora le Nazioni Unite nel 1950 mettendo in piedi piccole abitazioni di cemento, completate nel 1951, di una o due stanze e una piccola cucina. Scatole alte circa 2 metri e ampie non più di 30 metri quadrati. In tutto, il campo copre un’area di 66 dunams (letteralmente “quaranta passi in lungo e in largo”, unità di misura in uso nell’allora Impero ottomano e corrispondente a mille metri quadrati).

Secondo l’Ufficio centrale di statistica per la Palestina, nel 2006 l’Ayda aveva una popolazione di circa 3mila rifugiati da 35 diversi villaggi. Oggi, molto probabilmente, tocca le 5000 presenze.

Suor Loraine è una giovane religiosa, venuta cinque anni fa dalla Francia per vivere in Medio Oriente, a Beit Jela. Questa mattina, a Betlemme, ha cantato nel coro alla messa del Papa nella piazza della mangiatoia, a pochi metri dalla Basilica della Natività. Con suor Loraine, altre consorelle del Rosario, seminaristi e fanciulle provenienti da Bir Zeit, Beit Salam e Taiby.

È gentile e si presta a farci da traduttrice dall’arabo al francese, una lingua che in questa occasione è preziosa merce di scambio. Il vociare dei bambini, che corrono per i vicoli stretti del campo – saturo di calore, sudore e zaffate di timo – cresce davanti alla folla venuta qui per sentire dal Papa le parole buone, quelle che qui si aspettano da tanto. «Aspettative che il Pontefice non ha tradito», come ricorderà più tardi il padre francescano Ibrahim Faltas, parroco di Gerusalemme.

«È comprensibile – dice Benedetto XVI – che vi sentiate spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese indipendente, restano incompiute». E, continua il Pontefice, «in un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio, ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri».

Ecco perché «la soluzione a lungo termine ad un conflitto come questo non può essere che politica. Nessuno s’attende che i popoli Palestinese e Israeliano vi arrivino da soli. È vitale il sostegno della comunità internazionale. Rinnovo perciò il mio appello a tutte le parti coinvolte perché esercitino la propria influenza in favore di una soluzione giusta e duratura».

Tra le sedie c’è un bimbo che canta sottovoce, si chiama Omar e si tiene stretto alla nonna Alima che lo coccola e forse gli ha insegnato i suoi stessi sorrisi, la stessa timidezza. Alima ha 61 anni. Era nata da appena 40 giorni quando i suoi genitori sono stati costretti a scappare.

I soldati della nascente Israele, buttavano a terra le loro case, sequestravano i loro beni, confiscavano i loro orti. Alima è tornata una sola volta a Rass Abou Ammar, quello che era il villaggio di suo padre, ora circondato dalle case dai coloni. E una sola volta è stata a Gerusalemme. E di Gerusalemme ha conosciuto solo l’ospedale quando il fratellino di Omar ha avuto bisogno di cure mediche. E siccome i soldati, al check point, non hanno lasciato passare la madre del piccolo, Alima ha preso allora il suo posto accanto al bimbo.

«Voglio andare via di qui – piange mentre delle bambine, davanti al Papa, recitano un poema che parla di rispetto -, è brutto, non c’è lavoro, non ho i miei figli». «Anche una casa piccola piccola – dice -, mi basterebbe, ma che sia nel mio villaggio. Non qui, no, no».

Alle spalle del Santo Padre, una scritta dipinge la parete: è un proverbio arabo che spiega come il nemico dello studente sia la persona priva di cultura. «Non mancate di sostenere i vostri figli nei loro studi e nel coltivare i loro doni – Benedetto XVI condivide -, così che non vi sia scarsità di personale ben formato per occupare nel futuro posizioni di responsabilità nella comunità Palestinese».

Una ragazzina lascia volare via 61 palloncini neri, in segno di lutto, uno per ogni anno trascorso da quel 15 maggio 1948 che segnò l’inizio delle ostilità tra israeliani e coalizioni arabe. Il simbolo della rinascita e del ritorno alle proprie case è una chiave enorme che i bambini alzano contro il cielo.

14 maggio 2009

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