Che cosa significa “mistero” nella fede cristiana?

di Andrea Lonardo

«Sia a un dio, sia a una dea consacrato, Caio Sestio, figlio di Caio Calvino pretore, per decreto del senato rifece». Così recita l’iscrizione di un altare romano della fine del II secolo a.C. che è ora custodito nel Museo Palatino, all’interno dell’area archeologica del Palatino, dove Augusto ed i suoi successori hanno avuto la loro residenza.

Anche san Paolo, giunto ad Atene, dichiara di aver trovato «un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto» (At 17, 23). Questi due documenti, l’uno epigrafico e l’altro letterario, testimoniano della consapevolezza dell’uomo pagano di allora di non essere in grado di svelare il mistero del volto di Dio. L’ellenismo e la romanità imperiale non credevano più nei loro dei o, almeno, essi non riscaldavano più i loro cuori.

Un velo di mistero impenetrabile circondava il divino. L’uomo, mentre si interrogava se gli dei esistessero veramente, non riusciva a vederne il volto. Era un dio od era una dea? Era un unico dio o esistevano diverse divinità? Esisteva un dio del bene ed uno del male? E, se ne esisteva uno solo, poteva agire con gli uomini in maniera personale? Era benefico o pericoloso? E che relazione poteva intercorrere tra la vita divina e quella umana? Potevano esse parlarsi, comunicare, amarsi?

Iscrizioni come le due sopracitate esprimevano la religiosità che cercava di venerare il divino senza poterlo conoscere. Il culto, la pietas, aveva così il compito di tenere a bada questo “mistero”, di ottenerne i favori quale che fosse il suo volto indecifrabile. “Mistero” voleva dire inconoscibilità: all’uomo non era dato di sapere, in fondo, nulla del mondo di Dio. L’annuncio del vangelo incontrò questa consapevolezza dell’uomo antico.

Anche con una seconda accezione del termine “mistero” dovette misurarsi il cristianesimo. Infatti nel II secolo, quando il cristianesimo si era già diffuso nel Mediterraneo ed era giunto da tempo fino a Roma, i soldati dell’impero romano importarono nel mondo latino una nuova religione, il culto misterico di Mitra; avevano combattuto in Oriente ed alcuni di loro ne erano stati conquistati. Qui, all’accezione precedente del termine “mistero” se ne aggiungeva una seconda: Dio era misterico, misterioso, perché non era per tutti, non era per ogni uomo, ma solo per gli iniziati.

Quel poco che si riteneva di conoscere di Dio non poteva essere donato indiscriminatamente, ma doveva essere rivelato solo dopo un complesso sistema rituale di iniziazione. Alle donne, ad esempio, era vietato l’accesso al culto mitraico; solo gli uomini potevano parteciparvi. Il culto di Mitra era così qualificabile come mistero in un doppio senso, perché sapeva di non poter giungere a rivelare pienamente il volto di Dio, ma anche perché quel dio non era Dio di tutti, ma solo di alcuni.

Ecco, invece, la novità cristiana: Paolo, durante il discorso all’Areopago che abbiamo citato, subito aggiunge: “Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio” (At 17, 23). In tredici passi dell’epistolario paolino, per indicare questo annunzio che svela il volto di Dio, troviamo il termine “mistero”; esso non è più inconoscibile, impenetrabile, lontano ed imperscrutabile e neanche riservato a pochi eletti, ma è «il mistero taciuto per secoli eterni, ma rivelato ora e annunziato mediante le scritture profetiche per ordine dell’eterno Dio a tutte le genti» (Rm 16, 25-26).

Paolo, cresciuto nella familiarità con le Scritture, sa bene che l’uomo non può elevarsi sino a conoscere Dio con le proprie forze. Era stato, infatti, Dio stesso nel libro dell’Esodo ad insegnare a Mosè, a colui cioè che più di tutti era stato suo amico e suo messaggero: «Vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere».

Perché, allora, adesso i discepoli di Gesù annunciano che il ‘mistero’ è stato infine conosciuto? Perché è accaduto l’inaudito, ciò che non era possibile per mano d’uomo: a Dio è piaciuto rivelarsi agli uomini. “Placuit Deo revelare se ipsum”, afferma il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum (DV 2).

Analogamente ai rapporti umani, nei quali nessuno può dire veramente di aver conosciuto il cuore di un altro se questi non lo mette a parte dei suoi segreti –“Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?” (1Cor 2, 11)- ma ben di più, poiché Dio supera realmente ogni possibilità di essere compreso: Egli ha voluto che noi potessimo conoscerLo e così amarLo ed ha reso possibile questo nel dono dell’Incarnazione.

È per questo che tale ‘mistero’ non può più essere tenuto nascosto, non può essere condiviso solo da una ristretta cerchia di eletti, bensì deve essere predicato nelle piazze e sui tetti, perché tutti possano entrare nella comunione con Lui.

Ecco che la chiesa concorda, da un lato, con l’ebraismo e l’islam nella coscienza che la trascendenza di Dio impedisce che si possa pretendere di vedere il Suo volto, ma, d’altro lato, annuncia che l’onnipotenza di Dio è tale che Egli si è potuto fare liberamente piccolo per giungere a comunicare con noi. A noi è impossibile conoscerlo con le nostre forze, non a Lui farsi da noi conoscere.

La scoperta alla venuta del Cristo che tutta la storia è un disegno di Dio, che aveva preparato “in tanti e diversi modi” (Eb 1, 1) la sua completa rivelazione, svela così che il tempo che è passato e che passa non è una successione cronologica senza senso, ma che anzi esiste una ‘economia’ della salvezza. È ancora Paolo a far uso di questo straordinario termine greco (Ef 1, 10; 3, 9; 1 Tm1, 4) che ad uno orecchio moderno sembra riservato all’ambito produttivo e commerciale.

«Dio ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà… per realizzare l’economia (il disegno) di ricapitolare tutte le cose in Cristo» afferma la lettera agli Efesini (Ef 1, 10): qui il termine ‘oikonomia’ ha ancora il suo significato originario di “legge della casa” (cfr. i termini greci “oikos”, “casa” e “nomos”, “legge”): l’universo intero, cioè, e tutta la storia sono come una casa governata da Dio padre che la dirige secondo il suo disegno di benevolenza, perché tutti i figli vi trovino pienezza di vita. In Cristo si manifestano così sia il volto di Dio ed il suo amore personale, sia il significato dell’intera storia che è la Sua ‘casa’, la realtà che Egli conduce perché giunga alla comunione con Lui.

Ecco perché la fede cristiana può affermare: «Io so a chi ho creduto» (2Tim 1, 12)! Il ‘mistero’ impenetrabile di Dio e della storia umana ora in Cristo è svelato.

Ed anche l’insistenza dell’arte cristiana non solo sulla possibilità, ma addirittura sull’obbligo di rappresentare Dio in immagini, testimonia questo ‘mistero’. Se, prima di Cristo, la raffigurazione di Dio poteva essere considerata bestemmia, ora che Dio si è manifestato in ‘forma’ d’uomo la negazione delle immagini equivarrebbe all’affermazione blasfema che Egli non si è incarnato e non si è reso visibile. Il Concilio secondo di Nicea (787 d.C.) dichiarando solennemente e per sempre che l’iconoclastia è contraria alla fede cristiana spalanca così la strada alla pittura ed alla scultura di modo che, in forme diverse, Giotto come Michelangelo, Rublev come Caravaggio, l’arte paleocristiana come la cappella di Matisse a Vence, ci pongono innanzi al ‘mistero’ di Dio che è uscito dal ‘mistero’ ed è venuto ad abitare in mezzo a noi.

16 maggio 2008

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