Dallapiccola: «La cultura dell’accettazione»
Il genetista Bruno Dallapiccola sul caso di Eluana Englaro: «Quanti anziani, non più attivi e che hanno bisogno di essere alimentati e idratati, dovremmo smettere di curare?» di Francesco Lalli
«La vicenda di Eluana c’insegna ad interrogarci anche su questo: quanti malati di Alzheimer, per il semplice fatto che la medicina non ha ancora trovato una cura efficace, dovremmo smettere di accudire? Quanti anziani, non più attivi per gli standard della nostra società e che hanno bisogno di essere alimentati e idratati, dovremmo smettere di curare?». È l’interrogativo che si pone il genetista Bruno Dallapiccola, presidente – insieme a Maria Luisa Di Pietro – dell’associazione Scienza & Vita.
Professor Bruno Dallapiccola, la vicenda di Eluana sembra segnare uno spartiacque tra dibattito pubblico, politico, e la necessità concreta di una legge in merito alle questioni del fine vita. Qual è la sua posizione in merito?
Credo sia giunto il momento che si arrivi a una legge rispettosa verso tutti. Una legge che stabilisca che il diritto a ricevere l’idratazione e la nutrizione spetta a ogni essere vivente, dalle piante in su. Personalmente ho visto la bozza di legge presentata dal collega Raffaele Calabrò, che per altro stimo molto, e che contiene la ferma negazione di quanto è successo a Eluana, ma anche alcuni aspetti preoccupanti che meritano una discussione ulteriore. In particolare, mi riferisco all’importanza che viene attribuita a chi dovrebbe reperire le volontà, le testimonianze – chiamiamole come vogliamo – di una persona che si trova in uno stato d’incoscienza e necessita di un intervento immediato. Purtroppo quando si mettono dei paletti ad una pratica come quella medica e l’ideologia entra nella professione c’è il rischio che si vada incontro a forme di omissione di quelli che dovrebbero essere “atti d’ufficio”.
Che lezione si può trarre da come i media hanno restituito la vicenda di Eluana?
Guardando alcuni episodi delle ultime ore mi permetto di fare qualche osservazione su quest’aspetto. Dopo una poderosa campagna di alcuni mezzi d’informazione affinché si compisse il gesto terminale di presunta “pietà” che è stato poi perpetrato, certi giornalisti – così come persone comuni – ora sembrano sentirsi offesi dal fatto che si parli di “uccisione” o di “omicidio”. Al contrario, è necessario utilizzare i termini corretti che offre qualunque vocabolario della lingua italiana e se un medico dentro quella clinica ha consapevolmente operato per portare alla morte Eluana, si possono trovare espressioni apparentemente meno forti, come “eutanasia passiva”, ma sempre di omicidio si tratta perché, di fatto, ci troviamo di fronte a una funzione sconosciuta ed inquietante che assume la figura del medico nel nostro Paese.
Lei crede che la sensibilità comune, sulla base del caso di Eluana, sappia davvero sottrarsi alla tentazione di un nuovo ordine di giudizio come quello imposto dalla cosiddetta “qualità della via” che sembra oscurare il valore della vita in sé?
Come genetista lavoro in un ambiente dove la disabilità è all’ordine del giorno. Occorre incrementare enormemente la cultura dell’accettazione in Italia, altrimenti saremo sempre più schiavi di una logica da reality show o da pubblicità, prigionieri di un mito del bello e della perfezione che rifiuta perfino l’idea che si possa nascere con dei difetti. Ci sono moltissimi esempi di persone con handicap in grado di fare cose eccezionali, persone che sono risorse. La vicenda di Eluana c’insegna ad interrogarci anche su questo: quanti malati di Alzheimer, per il semplice fatto che la medicina non ha ancora trovato una cura efficace, dovremmo smettere di accudire? Quanti anziani, non più attivi per gli standard della nostra società e che hanno bisogno di essere alimentati e idratati, dovremmo smettere di curare?
11 febbraio 2009