GeGè Telesforo: “So cool”, il jazz fresco e onesto

Intervista al “maestro di groove” più famoso d’Italia, in concerto domenica 14 marzo all’Auditorium Parco della Musica di Concita De Simone

Per “Quelli della notte”, era – ed è – una delle presenze fisse accanto a Renzo Arbore, di cui, da foggiano cresciuto a pane e jazz, era un amico di famiglia. Eugenio Roberto Antonio Telesforo, conosciuto da tutti come GeGé Telesforo, classe 1961, è oggi un artista originale e poliedrico, ammirato come polistrumentista, vocalista, compositore, conduttore e autore di programmi radiofonici e televisivi, molti dei quali considerati dei veri e propri cult dello spettacolo italiano. Nel nostro Paese è uno dei pochi a praticare lo scat, una forma di canto jazz basata sull’improvvisazione vocale (genere lanciato da Louis Armstrong e praticato da Ella Fitzgerald, tanto per intenderci), e l’unico che si possa fregiare del titolo di Groove Master, ovvero maestro di quella successione ritmica che ricorre costantemente di battuta in battuta, tipica della black music e dell’ r’n’b.

Domenica 14 marzo sarà in scena alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica per presentare “So Cool”, il nuovo jazz album in distribuzione internazionale dallo scorso gennaio (arriva anche in Cina, Giappone, Messico, Argentina e Stati Uniti), registrato durante una live session salernitana di soli due giorni, e masterizzato presso il prestigioso Sterling Sound di New York.

“So Cool” contiene un repertorio originale scritto da Telesforo per il suo quintetto, con i testi firmati da Ben Sidran. L’omonimo brano, che dà il titolo all’album, è un contagioso groove retrò molto trascinante, cui seguono una serie di pezzi che spaziano ritmicamente dallo swing al be-bop, dal latin-jazz al groove, con un suono inconfondibile creato dall’impasto tra voce e sassofoni, che si arricchisce, di tanto in tanto di momenti solistici proposti da uno dei migliori organici in circolazione: Max Ionata ai sassofoni, Alfonso Deidda al pianoforte, flauto, e sassofoni, Dario Deidda al contrabbasso, Amedeo Ariano alla batteria, Peppe Sannino alle percussioni.

Intervistiamo GeGé mentre è intento a spalare neve dal giardino della sua casa-studio nel viterbese.

Un inverno molto “cool”, nel senso di freddo… Invece, il tuo album com’è?
Il disco è molto caldo. Il titolo è inteso nel senso di freschezza dei brani originali, scritti negli ultimi due anni. Il brano omonimo si prestava meglio all’air play radiofonico e mi riportava indietro a quando ascoltavo i dischi di papà. A lui, che era un cantante, ho dedicato “Daddy’s Riff”, che si rifà al jazz della West Coast. Ma nell’album non manca naturalmente l’approccio con il groove e i ritmi latini. Il disco è stato registrato tutto in acustico, in due giorni, perché avevo le idee molto chiare. D’altra parte un tempo i dischi si facevano così, tutti insieme, in studio. Su 12 brani, 8 li abbiamo inseriti dopo il primo take. Eravamo tutti molto contenti e ci siamo divertiti. E poi sto ricevendo molte critiche positive, che mi sorprendono perché i giornalisti della vecchia guardia erano scettici nei miei confronti, perché venivo dalla radio e dalla tv. Invece sono sempre stato sincero ed entusiasta nel mio modo di fare jazz e non mi sono mai svenduto al pop.

Quanto c’è di improvvisato nell’album e quanto ce ne sarà nel concerto di domenica?
Ho sempre pensato che l’improvvisazione debba aggiungere, ma di base deve esserci una bella melodia ritmicamente accattivante. È un difetto di italiani ed europei rispetto agli americani. Tendiamo a puntare al talento del solista. Invece, paradossalmente, nei miei dischi sono quello che fa di meno, perché mi annoio io per primo. Credo che il pubblico vada conquistato pezzo dopo pezzo e se già nel primo fai tutti i tuoi virtuosismi, poi ti bruci. Un brano non è un’esibizione sportiva. Non vince chi ha le corde vocali più robuste. Ci portiamo dietro il vecchio retaggio di cantare tutto in ottave basse e arrivare al ritornello con il massimo dell’estensione. Per me la musica è un’altra cosa, anche una melodia con due note può emozionare.

“So Cool” è arrivato anche in Cina. Come reagiscono in Oriente alle tue sonorità trascinanti?
Ci sono stato una volta per un mese in tournée con Renzo, ed è stato ovunque tutto esaurito. E quando facevo da solo sul palco le mie performance vocali, vedevo un entusiasmo che neanche a casa mia trovavo. Lì il mercato discografico è tutto da fare, ma stanno nascendo grandi realtà tra musicisti e addetti ai lavori. Ci sono pochi musicisti e tanti italiani ed europei oltre che americani si stanno trasferendo lì perché suonano tutti i giorni. In Cina regnava il mercato del disco tarocco, ma si stanno organizzando con bellissimi festival di jazz e world music. Io sono stato un pioniere nel mercato giapponese, dove sono sbarcato già nel 1994/1995. Prima c’era stato solo il trombettista Ninni Rosso, che negli anni Sessanta in Giappone veniva osannato più di Miles Davis. Ad ottobre tornerò in Cina con il nuovo album e staremo a vedere.

Invece, secondo te il pubblico italiano è cambiato? E quello che tele-vota è lo stesso che viene a ai tuoi concerti?
Sinceramente credo che nei confronti della musica ci siano due schieramenti netti. Quelli che seguono la televisione, per i quali le informazioni sull’arte arrivano solo da lì; e quelli di palato fine che la tv la sbirciano e che continuano ad andare nei negozi di dischi e nelle librerie. Tant’è vero che il Festival di Sanremo di quest’anno ha fatto vincere la televisione, hanno vinto i personaggi della tv. Mi indispone l’idea che il pubblico passi per sovrano, quando invece è solo schiavo della televisione.

12 marzo 2010

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