In un convegno le donne e il pluralismo religioso
Studiose, giuriste, giornaliste e rappresentanti delle istituzioni a confronto sul tema: riportare al centro della scena politica e del dibattito culturale le questioni di genere di Mariaelena Finessi
Come si può essere contrari ai matrimoni forzati e sostenere, al tempo stesso, che le culture minoritarie – in genere derivanti dall’immigrazione – debbano vedersi legittimate pratiche culturali tanto diverse dalle nostre? Come far conciliare il rito della mutilazione genitale con i diritti delle donne, universalmente riconosciuti, che mettono invece all’indice simili pratiche? E se tutto questo ha a che fare anche con i dettami religiosi, non si pone anche la questione della disciplina del pluralismo delle fedi? A discuterne, nel corso del convegno “Le donne e il Governo del Paese” – organizzato a Roma il 26 e 27 aprile, dalla Fondazione Nilde Iotti – studiose, giuriste e giornaliste, rappresentanti della politica e delle istituzioni.
«Per esemplificare questo conflitto si fa in genere riferimento ai casi più estremi come appunto i matrimoni forzati o l’infibulazione ma anche l’uso del velo, questione meno eclatante, incontra l’opposizione di vari settori del femminismo». Elisabetta Galeotti, docente di Filosofia all’Università del Piemonte Orientale, prova a sciogliere il nodo distinguendo tra «le questioni di genere da porre nell’agenda politica, per farne oggetto di provvedimenti legislativi» e «le questioni di genere relative invece all’immagine della donna in società», che è bene confinare nell’ambito del mero dibattito culturale. Ciò vuol dire che lo Stato dovrà intervenire solo qualora si consumi ad esempio una violenza domestica, sia essa scatenata da una malintesa gelosia sia da un atavico codice d’onore: «In questo caso, infatti, l’elemento culturale aggiunge poco». Ma se talune pratiche «sono semplicemente stonate rispetto all’immagine della donna libera prevalente nella nostra società, l’intervento paternalistico non è giustificato quando c’è il consenso delle donne alle pratiche stesse». Così per il velo islamico: «Difficile stabilire se le scelte di donne e uomini in materia di vestiario e di look siano frutto di una autonoma riflessione», eppure la scelta delle musulmane di restare nella tradizione e indossare il velo, «è da noi giudicata frutto di coercizione».
«Fermarsi alle apparenze è fuorviante», insiste Farian Sabahi, dell’Università di Torino, che fa l’esempio della primavera araba, applaudita ovunque nel mondo. Eppure tra coloro che hanno appoggiato questa grande rivoluzione dal basso «ci sono i fautori del test di verginità» e ci sono coloro «che propongono di introdurre il concubinato nella costituzione». Le donne egiziane che si sono esposte chiedendo pubblicamente agli uomini di scendere in piazza Taharir per non rendersi complici delle ingiustizie governative, in mente hanno invece altro: la possibilità di avere un ruolo nella scrittura della carta costituzionale. «E non solo per difendere le donne ma anche le minoranze religiose».
Quanto al pluralismo delle fedi, la giurista Valentina Fiorillo si interroga sul ruolo delle donne: «Costruttrici di ponti o soggetti da tutelare?». Le statistiche più recenti dicono che crede in Dio il 55,3% delle donne a fronte del 36,3% degli uomini e le minoranze religiose in Italia risultano composte in media più da donne che da uomini. «Questi dati – continua Fiorillo – segnalano l’esigenza che le politiche di integrazione passino attraverso le donne e siano soprattutto a favore delle donne». L’esempio del velo islamico torna ad essere calzante: in Francia è vietato indossarlo nelle scuole sia a ragione del principio di libertà (dalle imposizioni del gruppo di appartenenza) che di uguaglianza tra generi. Di contro, una ragazzina non può essere tutelata dallo Stato se fuori dall’aula è obbligata al velo dalla propria comunità. «La scelta del non intervento – conclude Fiorillo – è comunque incompatibile con il principio di libertà».
A questo punto sarebbe bene «capire quale religione è amica della democrazia, e non viceversa»: ne è convinta Marinella Perroni, presidente del Coordinamento delle Teologhe italiane. «Il problema – spiega – è di definire relazioni che non siano a stella, cioè tra la minoranza religiosa e l’autorità attraverso la stipula di un’intesa, ma circolare, ovvero tra tutte le religioni, cosicché si favorisca il dialogo». Il pluralismo, «concepito come coesistenza di verità parziali non è infatti compatibile con l’idea di essere gli unici detentori della verità. Dunque non ci sarà pace se la religione non abbandona il totalitarismo. Soprattutto – conclude Perroni – è bene ricordare che le religioni sono per gli uomini, e non viceversa».
2 maggio 2012