John De Leo e le sue sperimentazioni vocali vaganti

L’ultimo album del cantante nato a Lugo di Romagna è “Vago svanendo”: tra sonorità jazz, musiche folkloristiche e utilizzo di strumenti giocattolo di Concita De Simone

Un fumetto parlante: così si potrebbe spiegare John De Leo, uno degli artisti più originali della musica italiana, dotato di una voce-strumento decisamente poliedrica, gli permette di spaziare dal rock al be-bop, dal jazz fino alla musica contemporanea. Istrionico e bizzarro, dal 1992 al 2004 è stato anima e leader dei Quintorigo, ed è con loro che l’abbiamo già sentito e visto partecipare a due Festival di Sanremo (1999 e 2001), vincendo un Premio della Critica e due come Miglior Arrangiamento, nonché al Premio Tenco ’99 aggiudicatosi per l’album “Rospo”.

Forte del suo primo album da solista “Vago Svanendo” (prodotto da Adele Di Palma per Cose di Musica) uscito nel novembre 2007 per Carosello Records e vincitore del Premio della critica 2007 (Musica & Dischi), sarà in concerto all’Auditorium di Roma venerdì 3 ottobre (Teatro Studio) per far ascoltare anche al pubblico romano tutto il suo talento.

John De Leo, nato e radicato a Lugo di Romagna nel 1970, coinvolgerà il pubblico con un live in cui si fondono elementi jazz, musiche folkloristiche, sperimentazioni sonore e strumenti giocattolo (un’intera canzone del suo album “Bambino Marrone” è suonata esclusivamente con questi ultimi), per un risultato ogni volta diverso. Per questa esibizione sarà accompagnato da Christian Ravaglioli (oboe, corno inglese, fisarmonica), Fabrizio Tarroni (chitarre), Dario Giovannini (chitarre, fisarmonica) e Achille Succi (clarinetto basso).

L’album “Vago Svanendo” è un’opera di ricerca sonora in cui riescono a convivere armoniosamente uno straordinario standard jazz come “Big Stuff”, eseguita con 25 elementi dell’Orchestra Fondazione Arturo Toscanini di Parma, e una canzone come “Bambino Marrone”, di cui sopra. C’è tutto il suo estro anche nel brano “Tilt”, dove il ritmo è ottenuto percuotendo il clarinetto basso di Achille Succi, sfruttando il rumore che si ottiene aprendo e chiudendo le chiavi dello strumento a fiato. Per manipolare le voci di “Freak Ship” invece, ha usato un ventilatore per avere un effetto Lesile anni ’60 e un Karaoke giocattolo come distorsore.

E nonostante “vaghi svanendo”, De Leo, alle prese -sue proprie mani- con lo smantellamento di una mostra fotografica per una rassegna da lui organizzata a Lugo di Romagna, si ferma per rispondere alle nostre domande.

Sperimentazione musicale non sempre è sinonimo di eleganza, per molti, ma non per te. Come nasce la tua tecnica?
Intanto grazie. La sperimentazione non dovrebbe aver il cruccio dell’estetica o comunque questa non è il fine. Sperimentando si può incappare in composizioni brutte, idee che non hanno una forma riconosciuta. La meta è trovare qualcosa di nuovo. Devo ammettere però che le cose che sto facendo sono corrotte ancora dall’uso di un linguaggio musicale riconosciuto. Non so se mai potrò permettermi davvero di essere libero dai canoni del mercato; la tv non me lo permette, la mia manager non me lo permette. Cerco di restare in un ambito circoscritto, senza mortificarmi. Ma non mi sento ancora sono libero.

Pur avendo una voce portentosa, ti concentri sulla composizione in generale, curando molto gli arrangiamenti. Quali sono i passaggi che compie un tuo brano prima di essere pronto?
Beh, non si sono regole assolute. Si parte da un’idea embrionale, una fotografia mossa, poi, di solito parto dal discorso musicale. Sono riuscito a far crede di essere un cantante e vorrei partire dai testi, come farebbe qualunque cantante, ma mi interessano di meno.

Però nel tuo album ci sono anche testi significativi. Racconti, alla tua maniera, tante storie. Qual è il messaggio finale?
Ammesso che ci debba essere un messaggio finale, avevo la necessità di raccontare il momento di smarrimento che stavo vivendo. C’è un modo di vagare smarrito, destinato allo spegnimento, ma siccome io non sono pessimista mi sforzo di vagare godendomi il gusto della sorpresa, guardandomi attorno.

Hai collaborato con i migliori jazzisti, tipo Marcotulli, Fresu, Rava, Gatto e usi una tipica tecnica vocale jazz, detta scat, fatta di improvvisazione con infiniti fonemi, che fa cantare senza usare parole. Pur non facendo propriamente jazz, sei molto credibile, insomma.
Non ne ho idea. Ho accettato il fatto che la mia missione musicale sia la ricerca; non so se ci riuscirò, ma il mio obiettivo è trovare un linguaggio.

Con il gruppo multietnico Metissage, ti sei cimentato pure nel canto in lingua araba: immaginiamo che le tue scelte artistiche non siano solo uno sfoggio di bravura…
Non mi pongo il problema. So cosa non voglio comunicare: parlare strettamente di me, essere semplicistico, chiudermi nelle mie idee. Sperimento nella vita, senza retorica. Mi piacciono le altre persone, incontrarle, sentirmi raccontare altri vissuti. E applico questa cosa anche in musica, ecco perché mi ritrovo spesso in ensamble. Cerco di sintetizzare le diverse esperienze. Io sono più per gli incontri veri. Quelli virtuali li lascio a chi non ha di meglio da fare.

3 ottobre 2008

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