La musica della porta accanto per Roberto Gatto
Intervista al batterista che presenta il suo nuovo lavoro discografico all’Auditorium il prossimo 16 febbraio con Fresu, Bollani, Tittarelli e Bonaccorso di Concita De Simone
“The Music Next Door”, ovvero “La musica della porta accanto”: se a suonarla sono musicisti jazz come Roberto Gatto alla batteria, Paolo Fresu alla tromba, Stefano Bollani al pianoforte, Daniele Tittarelli ai sassofoni e Rosario Bonaccorso al contrabbasso, non può che essere un piacere. E se lunedì prossimo, il 16 febbraio, la porta accanto è quella dell’Auditorium Parco della Musica, meglio ancora.
Ritorna, infatti, nelle sale progettate da Renzo Piano, Roberto Gatto in compagnia dei musicisti sopra citati, per presentare il nuovo progetto “The Music Next Door”, pubblicato dalla Universal, che contiene composizioni nuove (6 su 11) e brani che non appartengono propriamente al repertorio del jazz ma che provengono da mondi musicali differenti. Da Elvis Costello (“You Left Me In The Dark”) a Ennio Morricone (“A Fistfull of Dynamite”), dagli Chic (“At Last I’m Free”), fino a un celebre tema tratto dall’Opera “I pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, “Ridi pagliaccio”, o meglio “Vesti la giubba”, passando per “Le tue mani”, brano interpretato anche da Mina. Il celebre batterista romano offre così un repertorio per tutti i gusti arrangiato, ovviamente, in chiave jazz.
Da sempre curioso nell’esplorare territori musicali diversi, non ultimo il recente progetto sul rock progressive, con brani tratti da dischi dei King Crimson, dei Genesis o dei Pink Floyd rifatti sempre in jazz, Roberto Gatto, romano, cresciuto al quartiere Prati, classe 1958, conferma così il suo talento di compositore oltre che di batterista. Debutta nel 1975 con il Trio di Roma, insieme a Danilo Rea ed Enzo Pietropaoli, affermandosi poi in tutta Europa e nel resto del mondo.
Romano, hai iniziato la tua carriera con il Trio di Roma. Che cosa ha significato per te, musicista jazz, essere nato qui e non, magari in America o in Francia in quegli anni?
Non so cosa sarebbe successo se fossi nato lì. Certo, sarebbe stato più facile fare il jazzista. Negli anni in cui ho cominciato io non era facile fare jazz. La gente non conoscenza questo genere musicale. Bisognava inventarsi tutto, dai luoghi, alle strutture, ai manager, ai festival. Eravamo come dei carbonari. Adesso è l’America che non tiene il passo. I grandi musicisti sono scomparsi e le nuove generazioni non sono la stessa cosa.
Sei arrivato a 34 anni di carriera: cosa hai visto e sentito nel jazz italiano di questi anni?
Prima suonavamo gli standard, abbiamo studiato con i pezzi americani, ma poi siamo cresciuti. Le cose sono cominciate a cambiare quando i musicisti più anziani di me hanno trovato una strada più personale, iniziando a comporre, e così hanno fatto parlare del jazz italiano nel mondo. Ogni musicista risente del clima da cui proviene anche nella scrittura; così i nord europei sono diversi da noi mediterranei, che amiamo la melodia, non solo quella della canzone napoletana ma anche dell’Opera, delle grandi colonne sonore. E tutti noi jazzisti che componiamo abbiamo preso ispirazione dai vari generi.
Qual è la tua musica della porta accanto?
Mi piaceva il titolo “The music next door”, ripreso da un film di Francois Truffaut, “The woman next door”. Ho pensato a quella musica che non è propriamente jazz ma arriva da altre provenienze. Musiche che mi piacevano, che conoscevo e ho riscoperto, come il pezzo “Le tue mani” di Mina o “A Fistfull of Dynamite”, di Morricone, dal film “Giù la testa” di Sergio Leone. Così, oltre ai brani composti da me, ho deciso di reinterpretare musica che la gente avesse sentito alla radio, musica popolare.
Qual è il segreto della re interpretazione in chiave jazz di brani pop?
Basta farlo con un atteggiamento onesto. Si prende una melodia e si risuona sostituendo la voce con una tromba o un sassofono. Questo è già l’80% del lavoro. Bisogna poi lasciare lo spazio per l’improvvisazione, che nelle canzoni non c’è, che vuol dire lasciare lo spazio per i musicisti, perché ricreino il pathos giusto. Ci vuole una certa sensibilità nel reinterpretare. Ed è una cosa diversa dalle cover. Alcuni ci mettono troppo le mani, togliendo la magia della musica e delle melodie che se sono passate alla storia, vuol dire che sono già perfette. Nessuno più dei jazzisti è legittimato a farlo.
I tuoi concerti oltre che piacevoli da ascoltare, sono belli per la sintonia palpabile che sai creare sul palco. Come sarà il concerto all’Auditorium?
Quello di lunedì non sarà un gruppo che girerà. È stato già un lusso metterli insieme per Umbria Jazz Winter e per la data di Roma. Forse ce ne sarà una a Milano. Insomma, sarà un’occasione rara per ascoltare i nuovi brani come nel disco.
13 febbraio 2009