La “Storia della cultura inglese”

Nel suo saggio Matthew Fforde, docente alla Lumsa di Roma, analizza due secoli di letteratura britannica e rileva la progressiva laicizzazione della società di Marco Testi

“Storia della cultura inglese” è un titolo che potrebbe portare un po’ fuori strada. Il fatto è che l’autore, Matthew Fforde, docente proprio di Storia della cultura inglese alla Lumsa di Roma, analizza due secoli di letteratura britannica, tirandone le somme a livello di cultura generale. E non sono somme in positivo: Fforde rileva che la progressiva laicizzazione della società inglese ha portato alla perdita di identità, alla distruzione delle famiglie e ad una vera e propria epidemia di depressione.

«Ci si domanda a questo punto in quale misura la desocializzazione, e la negatività presente nella letteratura, vadano collegate a quello che è forse il fenomeno culturale più rilevante dell’epoca contemporanea, vale a dire la decristianizzazione». Un punto di vista condiviso da molti, che non è il solo elemento di interesse di questo studio: nella seconda parte, infatti, l’autore presenta brevemente, ma in modo incisivo, autori che tra Otto e Novecento hanno dato contributi essenziali alla letteratura e al teatro inglesi. Si possono così finalmente cogliere anche in Italia, alla luce di studi aggiornati, l’importanza e talvolta la capacità di sporgersi coraggiosamente in avanti nel tempo di scrittori come Tolkien, Lewis, Wells, Benson.

Uno dei più lunghi paragrafi del libro è dedicato proprio a quest’ultimo, autore di romanzi utopistici – venati da profondo pessimismo – che narrano di società post-moderne in cui il cristianesimo viene perseguitato perché si oppone ad una concezione della vita in cui contano solo il piacere fisico e l’efficienza. Panteismo, utilitarismo distorto, massoneria completamente ateizzata, umanesimo del tutto secolarizzato segnano gli ultimi stadi di una società che porta alla distruzione dell’umanità intera.

E in effetti un’atmosfera da fine impero aleggia in questo per certi versi affascinante lavoro di Fforde. Gli scrittori appaiono i notai, ma nello stesso tempo anche gli attori, di una crisi sociale senza pari che porta all’infelicità e alla perdita di valore dell’uomo, e fa bene Fforde a ricordare le suggestive pagine della “Terra desolata” di Eliot in cui si descrive la tristezza e la malinconia dell’uomo «liberato» dalle «superstizioni» della fede. Efficienza, estetica fine a se stessa, funzionalità, consumo acritico sembrano i nuovi idoli di una società che ha bisogno di espandere i propri mercati, e non può tollerare resistenze.

Eppure, è lo stesso Fforde a farlo rilevare, moltissimi sono in Inghilterra gli scrittori convertiti al cattolicesimo e al cristianesimo, che lottano perché questi valori vengano difesi. Non basta: il declino sociale è evidenziato anche da quello culturale, con l’abbandono della correttezza grammaticale, della punteggiatura e quindi, perché c’è un legame, della correttezza dei rapporti, del rispetto verso l’altro. La perdita delle tradizioni, è il messaggio di questo libro, è un autentico flagello, non una liberazione.

“Storia della cultura inglese”, di Matthew Fforde, Cantagalli, pp. 196, 14 euro

6 aprile 2010

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