Regione e famiglia: perché ricadere nello stesso errore?

Il testo integrale dell’editoriale pubblicato sul numero del settimanale Roma sette uscito il 18 dicembre con Avvenire di Angelo Zema

A sei anni di distanza sembra ripetersi, purtroppo, ciò che accadde il 15 ottobre 1999, quando il Consiglio regionale del Lazio approvò una legge regionale in materia di “programmazione degli interventi a sostegno dei nuclei familiari” che metteva in secondo piano la differenza essenziale che esiste tra la famiglia legittima fondata sul matrimonio ed altre forme di convivenza.

Nei giorni scorsi, infatti, la Giunta regionale del Lazio, su proposta del presidente Marrazzo, ha dato mandato all’assessore alle politiche sociali di predisporre un provvedimento legislativo, da proporre quale allegato della prossima legge finanziaria regionale, «finalizzato a prevedere forme di assistenza indirizzate a persone che risultino legate da vincoli affettivi e conviventi anagraficamente con carattere di stabilità, al di fuori dei casi ricompresi nella legge regionale n. 32/2001», cioè della legge approvata dal precedente Consiglio Regionale che aveva giustamente previsto interventi a sostegno della famiglia fondata sul matrimonio.

Ora invece tale famiglia viene declassata a «nuclei familiari di tipo tradizionale» e si prevede di estendere i benefici previsti a suo favore alle altre forme di unione sopra indicate, che comprendono evidentemente anche le unioni omosessuali.

Per giustificare un simile provvedimento si richiamano genericamente gli articoli 2 e 3 della Costituzione, trascurando l’articolo 29 che «riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».

Il ragionamento sottointeso è che, alla luce dei diritti inviolabili dell’uomo e dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (che è il contenuto degli articoli 2 e 3), sarebbe lecito, e anzi doveroso, parificare per vari aspetti le cosiddette “coppie di fatto” alle famiglie regolarmente sposate.

Vi è in questo un’evidente mancanza di logica, dato che a situazioni profondamente diverse non può corrispondere un trattamento uguale, come ha più volte riconosciuto, proprio in questa materia, la Corte Costituzionale.

Ma soprattutto una tale assimilazione, sotto l’apparenza di venire incontro a situazioni meritevoli di aiuto – alle quali si potrebbe sempre provvedere rimanendo nell’ambito dei diritti e doveri delle persone -, produrrebbe un gravissimo danno sociale, rendendo ancora più difficile, specialmente per le giovani coppie, percepire l’autentica natura e il valore del matrimonio, che, come ha detto il Papa nel discorso del 6 giugno scorso al Convegno della diocesi di Roma, è una «esigenza intrinseca del patto dell’amore coniugale e della profondità della persona umana»: la famiglia legittima è in realtà un fondamentale bene sociale, come i figli e la loro educazione sono la vera garanzia del nostro comune futuro.

Proprio riguardo alle famiglie di fatto il Santo Padre, nello stesso discorso del 6 giugno, aveva precisato: «Le varie forme odierne di dissoluzione del matrimonio, come le unioni libere e il “matrimonio di prova”, fino allo pseudo-matrimonio tra persone dello stesso sesso, sono espressioni di una libertà anarchica, che si fa passare a torto per vera liberazione dell’uomo».

Perciò, se malauguratamente la proposta della Giunta regionale del Lazio dovesse tradursi in un provvedimento legislativo, non potrebbe che riproporsi, in tutta la sua chiarezza, la valutazione totalmente negativa che i vescovi del Lazio avevano dato il 19 ottobre 1999 della legge regionale che era stata allora approvata e che oggi nella sostanza si vorrebbe riproporre.

18 dicembre 2005

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