Ritorno alla tradizione con i Napolincanto

Il repertorio popolare affascina sempre più i musicisti italiani e piace alle giovani generazioni di Concita De Simone

Il successo de “Il terzo fuochista” di Tosca all’ultimo Festival di Sanremo, forse, non è un caso. Nelle scuole di musica c’è un gran fermento e scorrendo gli appuntamenti musicali degli ultimi tempi, si trovano tante occasioni per riascoltare brani tipici della tradizione o un repertorio popolare che se chiamassimo “folk” farebbe storcere di meno il naso. Ne è un esempio “Radici”, uno spettacolo che propone un viaggio profondo nella memoria musicale tradizionale mediante l’utilizzo di uno straordinario organico capace di segnare con la diversa qualità dei propri suoni la varietà dei sentimenti offerti. Protagonisti Ambrogio Sparagna con la sua orchestra popolare e con la partecipazione straordinaria di Nino D’Angelo come voce solista, in scena all’Auditorium Parco della Musica mercoledì 21 marzo alle ore 21.

Lo spettacolo si presenta come un esempio particolare di oratorio popolare caratterizzato dalla presenza di voci soliste, un’orchestra di strumenti popolari e un complesso bandistico. A questo grande complesso strumentale di oltre settanta elementi si aggiunge la voce di Nino D’Angelo che interpreta una serie di brani cantati e recitati. Una grande festa in musica, dunque, in cui pochi resisteranno seduti sulle poltroncine dell’auditorium. Al preludio di questo spettacolo che racconta il ciclo della vita, fanno seguito momenti più lirici legati al repertorio delle ninne nanne e canti di serenate. In particolare Radici propone alcuni esempi classici di serenate come “Lu cardillo”, “Era di Maggio” affidate all’interpretazione originale di Nino D’Angelo, accompagnato dall’organico di strumenti popolari. Accanto a questi esempi lo spettacolo si arricchisce anche di serenate pugliesi e salentine mentre la dimensione della vita che scorre con forza è segnata da una ricca presenza di tarantelle, pizziche, tammurriate e moresche eseguite da tutto il grande organico strumentale.

Tra religione e religiosità, in un trionfo di ritmi e suoni che non hanno mai perso fascino ma che, appunto, ultimamente si stanno diffondendo anche tra le giovani generazioni. Lo conferma Gianni Aversano, dei Napolincanto, trio post-desimoniano (il riferimento è al noto maestro Roberto De Simone), attivo dal 1997, che ha recentemente pubblicato l’album “Napule, popolo e Dio”, dedicato al repertorio sacro napoletano, e che si è esibito a Roma lo scorso 3 marzo al Teatro don Orione. Il trio è composto da Nando Piscopo, mandolino, Domenico De Luca chitarra solista e percussione e Gianni Aversano voce e chitarra, che nella vita è anche insegnante di filosofia e storia presso un liceo classico di Napoli, oltre che studioso di storia e tradizioni partenopee.

Con “Napule, popolo e Dio”, siete riusciti a rendere fruibili al grande pubblico composizioni che accompagnavano spesso processioni e feste ricche di balli. Come viene accolta ancora oggi la vostra musica ai concerti?
Queste canzoni partono dall’esigenza di verità che è nel cuore dell’uomo. Non sono astratte sociologie sull’amore, ma vanno dritte al cuore. Il nostro pubblico dimostra sempre una grande voglia di partecipare. La gente ritrova il desiderio di sentire vicino il mistero e si crea un attaccamento quasi viscerale alle nostre canzoni.

Nel febbraio del 2004 avete tenuto un concerto privato in Germania per l’allora cardinale Ratzinger. Come è andata?
Fu una fortuna per noi perché una nostra conoscente di Roma organizzò una cena cui partecipava anche il cardinal Ratzinger e noi eravamo la sorpresa della serata. Abbiamo fatto un’ora di concerto, con le nostre tarantelle, le nostre canzoni. Il Pontefice è una persona semplice e molto attenta, e all’epoca ci ringraziò per avergli fatto conoscere l’aspetto musicale di Napoli. Era incuriosito in particolare dal mandolino e ci ha chiesto come si suonasse. Abbiamo parlato tanto… Ricordo la sua spiegazione sulla bellezza della musica e dell’arte che sono il segno di una bellezza più grande.

Qual è il contributo che la musica napoletana ha dato e dà ancora a quella italiana e viceversa?
Stiamo preparando uno spettacolo nuovo che parte delle villanelle del 1500 e si ferma al 1700 con Paisiello, Pergolesi, Cimarosa; abbiamo notato come già allora si sia sviluppata la melodia italiana. La nostra tradizione ha attinto da diverse culture. Napoli è stata legata ai bizantini e, nella sua musica, ritroviamo quella cadenza nasale che ricorda le melodie orientali. Ma poi consideriamo le influenze della Spagna, come delle Francia. È una melodia universale non solo perché tocca il cuore, ma anche geograficamente. E poi, lo sappiamo, Napoli nel mondo molto spesso rappresenta tutta la canzone italiana.

Il successo di pubblico e critica di Tosca al recente Festival di Sanremo, può essere un segnale per tutta la musica italiana? Possiamo parlare di un ritorno alle tradizioni?
Non possiamo mai dirci originali. Riproporre il passato non significa essere vecchi, ma fieri di quello che c’è stato. Purché la ripresa delle tradizioni non sia ideologica. Non è possibile ritornare alla cultura contadina, in tutto e per tutto. Sarebbe inutile nonché mistificante giocare a fare i pastori, magari suonando anche in costume. Occorre “tradire la tradizione”, facendo delle versioni più verosimilmente urbane. Non per niente “tradere” significa consegnare.

16 marzo 2007

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