Famiglia e disabilità infantile, testimonianze che ci interrogano
La storia di una mamma «drammaticamente realista» che riconverte la propria vita per la “cura” della primogenita cerebrolesa
Cara famiglia, voglio parlarti di una storia in cui mi sono imbattuto casualmente, una storia di una famiglia semplicemente speciale, raccontata da una donna semplicemente speciale (il riferimento è alla storia raccontata in “Se Arianna” di Anna Visciani, Giunti Editore, 2014). In questa famiglia c’è una mamma, un papà, una prima figlia, seguita da una sorella e un fratello. Fin qui si direbbe nulla di particolare, tranne il fatto che i figli sono tre, cosa che ormai da tempo risulta non abituale nelle famiglie italiane. Ma la primogenita, A., è una bambina cerebrolesa, con gravissime conseguenze sul piano fisico e mentale, per cui dipende in tutto e per tutto dagli altri. E, prima tra gli altri, è la mamma.
Una mamma drammaticamente realista, che affronta il dolore di una procreazione così ineluttabilmente ingabbiata nel suo sviluppo infantile a causa della profondità del danno cerebrale, e lo affronta semplicemente rimboccandosi le maniche. L’affettività di questa donna, ferita nel profondo dell’anima, passa attraverso il fare quotidiano, il diventare le braccia e le gambe di A. Di riflesso, tutto il nucleo familiare si modella sullo spirito della mamma, sul suo crudo realismo e su una indiscutibile abnegazione a mettere in campo tutto ciò che occorre per l’equilibrio della figlia, sulla rabbia per un destino ingiusto che si è accanito contro il naturale istinto materno e sulla leggerezza nell’interagire con A. e coinvolgerla nelle vicende della quotidianità.
Cara famiglia, vengo a contatto tutti i giorni con storie di disabilità infantile, sempre alla ricerca di azioni utili al miglioramento del benessere psicofisico di ciascun bambino e delle figure che lo circondano ma mi son dovuto soffermare, nel progredire di queste pagine che non lasciano spazio alla noia, sulla sostanziale superficialità con cui veniamo a contatto con la realtà di coloro che nella loro abitazione convivono con un disturbo di sviluppo, con le problematiche che ciò comporta giorno per giorno. Perché non c’è giornata per questa mamma che non cominci con il farsi braccia e gambe di A.
Non c’è pietismo che tenga, religioso o meno! E non c’è nemmeno terapia che tenga, perché le sue parole sono indiscutibilmente chiare: la fantasia di una donna in attesa di dare alla luce un figlio è tutta orientata verso la sanità e il desiderio di vedere una crescita verso l’autonomia di ogni figlio che verrà. Certamente è possibile, anzi necessario, ricostruire le aspettative e adattarle alle reali possibilità di una figlia che non può diventare autonoma nei pensieri e nelle parole oltre che nelle azioni della cosiddetta routine quotidiana. E ciò può avvenire in un’esperienza familiare che dà spazio a tutti, nonostante gli inevitabili “effetti collaterali” delle sue disabilità.
Ma resta che questa bambina vive perché la donna che l’ha portata in grembo prima e data alla luce dopo ha fatto una riconversione totale della propria esistenza: ha dovuto scegliere di diventare l’apparato cuore-polmoni cui far collegare A. e portarla là dove sarà possibile, combattendo spesso da sola contro le resistenze ambientali, a volte anche dentro la famiglia stessa. E per farlo ha lasciato tutto, il suo lavoro di medico con le ambizioni a esso connesse, con l’organizzazione che si era data e le relazioni personali con colleghi e amici: tutto cambiato. Perché è l’unica strada da percorrere per far vivere la figlia, nonostante il «dolore che si rinnova, ogni volta, per quel mancato sviluppo e quell’emancipazione impossibile». Per ogni esigenza che si presenti per il figlio, cioè in tutti i momenti di cui è fatta una giornata. Notte compresa.
Quindi, non è soltanto il “dopo di noi” di questi genitori che deve porre un interrogativo incessante nei confronti di tutti, addetti ai lavori e non addetti, ma è la loro stessa testimonianza di vita. Non è di sentimento filantropico né tanto meno, come va molto di moda oggi, di “parent training” che c’è assoluto bisogno ma di una onesta riflessione sul tipo di società a cui affermiamo di appartenere, sull’assunto teorico di un dettato costituzionale che davvero potrebbe far da riferimento per tutte le altre nazioni. Ma che purtroppo continua a dare segni di arretratezza: siamo chissà quanto lontani dal senso di appartenenza che ha caratterizzato l’epoca in cui tali principi sono stati collettivamente interpretati.
Occorre il coraggio di una inversione di rotta, di spazi di inclusione reale, non compassionevole, non volontaristica. Ci sono tutti i presupposti culturali, nonché professionali, per garantire la presenza continuativa dell’organizzazione sociale nei confronti di ciascuno dei figli che vi appartengano. Vi sono già esperienze preziose in cui la convergenza pubblico-privato sociale ha dato frutti interessanti, ha dato risposte efficaci da cui partire per ottenere il meglio in un campo che di certo è di estrema delicatezza e complessità, perché coinvolge tutte le componenti della comunità. Credo sia possibile mirare alla costruzione di una società in cui non solo vi sia la consapevolezza che, per dirla con Kahlil Gibran, «i vostri figli non sono figli vostri…sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita», ma addirittura ci si senta responsabili nel costruire la traiettoria per coloro che non hanno nessun mezzo proprio per farlo. (Roberto Rossi, neuropsichiatra infantile)
27 luglio 2019