“Fuocoammare”, quando il cinema racconta la realtà dell’immigrazione

Il documentario di Gianfranco Rosi sugli sbarchi a Lampedusa presentato al Teatro de’ rossi. Il medico Pietro Bartolo: «I primi 3 profughi, 25 anni fa»

Il documentario di Gianfranco Rosi sugli sbarchi a Lampedusa presentato al Teatro de’ rossi. Il medico Pietro Bartolo: «I primi 3 profughi, 25 anni fa»

“Fucoammare”, il documentario di Gianfranco Rosi sugli sbarchi a Lampedusa, «è tutta verità. C’è una richiesta di aiuto da parte di un gommone che stava affondando; chiedevano in risposta “Dove siete?” e una donna continuava a chiedere aiuto. A un certo punto si è interrotta la telefonata. Sono affondati e sono morti tutti». Pietro Bartolo, medico di Lampedusa tra i protagonisti del film vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, ha presentato così la proiezione che si è tenuta venerdì 22 marzo al Teatro de’ Rossi. Con lui l’amministratore delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco, il protagonista quattordicenne Samuele Puccillo e il giornalista Michele Zanzucchi. Tra gli spettatori, il vescovo ausiliare del settore est Giuseppe Marciante.

«Di queste cose brutte ce ne sono tantissime». Bartolo le vede da quando i primi tre profughi sbarcarono a Lampedusa, 25 anni anni fa: «Da allora io personalmente ho fatto 700 ispezioni cadaveriche. È qualcosa di atroce, soprattutto quando sono bambini piccoli, bambini di due anni, un anno, sei mesi. Ho fatto ispezioni cadaveriche su donne che hanno partorito durante il naufragio, ancora attaccate al cordone ombelicale». Per Bartolo, raccontare ciò che ha vissuto non è sempre facile – «sono anche i miei incubi» – ma ritiene di aver fatto «solo quello che ogni uomo dovrebbe fare» e non ha intenzione di smettere: «Ringrazio il maestro Rosi che mi ha dato la possibilità di condividere questa esperienza, adesso ne parla tutto il mondo». L’obiettivo però è più specifico: «Non siamo riusciti a colpire ancora quelli che erigono muri e mettono il filo spinato. Ho visto che sparavano i lacrimogeni in Macedonia. Forse i militari che fanno queste cose non vorrebbero farle, forse sono costretti perché devono obbedire».

La notte del 3 ottobre 2013 Bartolo era sulla banchina. Le cronache l’hanno definita la più grande strage in mare dell’ultimo secolo: «Mi avevano detto di correre e io ero già lì. Arriva un peschereccio di lampedusani, sono salito e c’erano 20 ragazzi vivi – ha raccontato -. Vedo i comandanti che piangono, non riescono a fermarsi. Facciamo scendere quelli che erano vivi e sulla poppa c’erano 4 cadaveri». Il comandante era sotto shock: «Il comandante, che piangeva, mi diceva che cosa era successo… li prendeva sulla barca, ne aveva tirati su 20, più 4 cadaveri. Poi si era stancato: siccome erano unti di gasolio, gli scivolavano, li vedeva andare giù e morire. Nel frattempo erano saliti i vigili del fuoco e li avevano messi nei sacchi e io gli ho detto “No, fatemeli visitare come faccio sempre, voglio accertarmi che siano morti”». I primi tre erano sicuramente cadaveri. «L’ultima era una ragazza giovanissima, avrà avuto vent’anni. Mentre parlavo con Domenico ho sentito il polso della ragazza e mi è sembrato di sentire un battito, poi ne ho sentito un altro. L’abbiamo portata a terra e messa sull’ambulanza e siamo corsi al pronto soccorso». Così è sopravvissuta: «Per me è stata una grande gioia, mi ha dato la forza per continuare a fare quello che dovevo fare». Alla fine i sacchi saranno 368, secondo i giornali 366, ma Bartolo è convinto: «Li ho visti tutti io e di quelle morti sono certo. Per me non sono numeri ma persone. Sono tutte persone come noi, non sono diverse, forse di colore, ma se ancora parliamo di colore ce ne possiamo andare tutti, abbiamo chiuso».

“Fuocoammare”, ha spiegato il produttore, è un documentario, ma ha un linguaggio cinematografico e si snoda su un doppio livello: la normalità degli abitanti di Lampedusa, rappresentata da Puccillo, e gli sbarchi. Tra i due piani la figura di Bartolo. Nel periodo in cui Rosi è arrivato a Lampedusa, i naufraghi venivano portati direttamente in Sicilia, e c’è stato il rischio che il progetto del film saltasse, ma il medico è passato all’azione: «Ho cominciato a raccontargli tutto quello che potevo per convincerlo. Un film poteva dare un messaggio più forte». Alla fine il dottore gli ha dato una pendrive, le foto degli sbarchi: «25 anni della mia vita, 25 anni di immigrazione».

26 aprile 2016