“Gli anni più belli”, senza slanci l’affresco di Muccino sull’Italia
Nelle sale dal 13 febbraio il 12° film del regista romano, che vede al centro Roma, e al centro della città l’amicizia. A sorreggerne l’impalcatura, un pregevole manipolo di interpreti
Quattro adolescenti romani (Giulio, Gemma, Paolo, Riccardo) fanno conoscenza all’inizio degli anni ’80 e cominciano un’amicizia destinata a durare fino ad oggi. Tra alti e bassi, successi e fallimenti, cambiamenti sociali profondi ed epocali, illusioni e delusioni personali e collettive… Giulio prende la parola per primo, guarda in macchina verso lo spettatore e comincia in flashback a raccontare. Comincia così “Gli anni più belli”, il nuovo film scritto da Gabriele Muccino e Paolo Costella e da Muccino stesso diretto, in sala dal 13 febbraio scorso.
Gabriele Muccino è nato a Roma il 20 maggio 1967, dirige con questo il dodicesimo film di una filmografia iniziata ne 1997 con “Ecco fatto” e realizzata per una non piccola parte negli Stati Uniti a stretto contatto con il cinema e gli attori di forte marca hollywoodiana (da “La ricerca della felicità”, 2006, a “Padri e figlie”, 2015). Dal 2018 Muccino è tornato a lavorare in Italia e, quasi a recuperare il tempo perduto, dice, nelle note di regia: «Il film è un grande affresco che racconta chi siamo, da dove veniamo e anche dove andranno e chi saranno i nostri figli».
Ma forse la sceneggiatura non ha (non vuole avere) una grande spinta profetica. In realtà al centro del film c’è Roma, e al centro della città c’è l’amicizia. Che comincia quasi senza volerlo, e poi, grazie a un crescendo di circostanze, diventa via via più importante, e determinante, sfociando, come è inevitabile, in incomprensioni che diventano rancori, gelosie, ripicche personali. Qui si pensa, inevitabilmente, a “C’eravamo tanto amati”, il film diretto da Ettore Scola nel 1974, diventato negli anni punto di riferimento ineludibile per qualunque vicenda nazionale sospesa tra storia e realtà, quasi una pietra miliare, che peraltro in conferenza stampa Muccino ha confermato di aver tenuto ben presente, insieme a tutto quel cinema italiano che, da Monicelli a Risi a Comencini, ha rappresentato l’impalcatura di una costruzione artistica quella sì non più sostituibile.
Di fronte allora alla necessità di dare spazio a una generazione priva dei puntelli del passato (il dopoguerra, la “nuova” Italia, il boom economico) e afona di fronte alle richiesta del futuro (cosa fare per superare riflusso e corruzione politico/sociale? ), Muccino si rifugia su Roma, la cui millenaria solidità si mostra in grado di reggere a ogni cambiamento e permette ai quattro ragazzi ormai cresciuti di ritrovarsi in trattoria e cantare tutti insieme (tra eccessi e stonature) “La società dei magnaccioni”. Canzone di fronte alla quale cedono paure e timori, a favore di una rinnovata vitalità tanto esplicita quanto posticcia. In mezzo, tra gli ex–giovani, ormai vaganti per le strade di Roma di suadente bellezza fino al bagno nella fontana di Trevi, hanno cominciato a circolare da tempo commozione, emozioni, un’idea di memoria difficile da cancellare.
Se l’impalcatura sta in piedi è perché a sorreggerla c’è un pregevole manipolo di attori/attrici (Pierfrancesco Favino/Giulio, Micaela Ramazzotti/Gemma, Kim Rossi Stuart/Paolo, Claudio Santamaria/Riccardo) che ridono, piangono, si prendono e si lasciano. Trasmettendo il dubbio alla fine se sia tutta verità e piuttosto non prevalga un certo artificio. Film comunque da vedere per inquadrare meglio il nostro passato e aiutarci a capire qualcosa di più sul futuro.
17 febbraio 2020