Il Fatebenefratelli «nell’ora delle tenebre», in difesa degli ebrei di Roma
La comunità al tempo dell’occupazione nazista, raccontata in un convegno, nella sala dove erano ricoverati i malati affetti dal “morbo di K” inventato da Borromeo
A 10 anni dalla morte di fra Maurizio Bialek, all’epoca economo dell’ospedale – «il più attivo e dinamico», nelle parole del priore fra Angel Lopez, tra i 33 religiosi dei Fatebenefratelli di Roma negli anni dell’occupazione nazista -, la sala Assunta dell’ospedale S. Giovanni Calibita all’Isola Tiberina ha ospitato ieri, 20 novembre, il convegno su “La comunità del Fatebenefratelli nell’ora delle tenebre. La difesa degli ebrei romani”, promosso da Addolorata Vassallo. Al centro, l’azione svolta dalla comunità in quei momenti di grave pericolo per aiutare e salvare gli ebrei della Capitale. Fra Lopez ha fatto riferimento alle recenti parole del Papa sui rischi di una ripresa dell’antisemitismo per ricordare anche la «generosità con cui la famiglia religiosa ha nascosto ebrei e ricercati per motivi politici o disertori». Famiglia di cui all’epoca facevano parte anche 5 novizi e 6 postulanti.
In quel contesto spicca la figura del dottor Giovanni Borromeo, che dopo essere stato escluso dagli ospedali pubblici per aver rifiutato di iscriversi al Partito fascista, il 27 aprile 1934 iniziò a lavorare nell’ospedale dei Fatebenefratelli e fu l’inventore del famoso “morbo di K”, l’inesistente malattia (con riferimento a Kesserling e Kappler), «contagiosissima», con sintomi singolari, che avevano i rifugiati ricoverati nella stessa sala Assunta che ha ospitato il convegno e che in quegli anni era il reparto di Medicina. Lo ha ricordato fra Giuseppe Magliozzi, che ha raccontato anche la definizione che lo stesso Borromeo dava del fascismo: «È come le emorroidi che si gonfiano a più non posso per finire in una chiazza di feci e sangue». Il religioso ha citato la «Sora Lella, che non aveva ancora il ristorante ma cucinava a casa e vendeva i piatti, poi quello che avanzava lo portava per gli ebrei nascosti nel locale che raccoglieva l’acqua reflua dell’ospedale, situata sotto a una botola all’interno della stanza da 4 letti di isolamento». E ancora, la radio installata in ospedale per comunicare con la Resistenza e che fu frettolosamente gettata nel Tevere in occasione di una perquisizione nazista.
Nel suo intervento Claudio Procaccia ha definito il contesto in cui si trovava la comunità ebraica romana tra le leggi razziali e il rastrellamento del 16 ottobre 1943, sottolineando che l’80% degli ebrei romani si salvò grazie all’aiuto di privati e istituti religiosi. Finora ne sono stati identificati 39 di quelli che trovarono rifugio all’Isola Tiberina. Altro protagonista di quella stagione fu il dottor Vittorio Emanuele Sacerdoti, ricordato dal Pier Luigi Guiducci, docente alla Lateranense. Arrivò in ospedale nel 1941, proveniente da Ancona: nonostante fosse disposto a svolgere mansioni inferiori, Borromeo lo ingaggiò subito come medico, anche per la carenza di professionisti, richiamati sotto le armi. «Da niente ero ritornato nella mia personalità, in rapporto con persone alla pari», raccontò Sacerdoti in un’intervista nel 1988, nella quale affermò pure che «senza un ordine dall’alto» non si poteva spiegare la rete di solidarietà delle istituzioni cattoliche nei confronti degli ebrei. Infine, Anna Maria Casavola ha ricordato il legame tra il generale Roberto Lordi, figura di spicco della Resistenza, e Borromeo, suo medico personale. Quando l’ufficiale fu rinchiuso e torturato a via Tasso, i nazisti chiamarono Borromeo per visitarlo. Questi ottenne di vederlo in privato e Lordi, temendo di non resistere a ulteriori torture, ne approfittò per comunicargli nomi e indirizzi di altri oppositori al regime da avvisare per mettersi in salvo.
Tra le persone che hanno portato il loro saluto anche Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, che ha sottolineato non solo l’opera dei Fatebenefratelli durante l’occupazione ma anche l’«assistenza ai tanti, troppi feriti dell’attentato del 1982» nella vicina sinagoga, auspicando che il «rapporto di vicinanza continui con lo stesso spirito, attenzione e passione per malati e bisognosi». Significative due brevi ma preziose testimonianze. La prima di Gabriele Sonnino, che nel 1943 aveva 4 anni e giocava con fra Maurizio intorno alla fontana dei pesci nel chiostro dell’ospedale. «Sono stato ricoverato qui una trentina di giorni con la mia famiglia – ha raccontato emozionato -. Ero il suo cocchetto, dove andava lui andavo io. Ho dormito in mezzo agli ammalati, ho conosciuto Borromeo e Sacerdoti. Il morbo di K fu un atto eroico, tanti non lo sanno, spero che facciano presto un film per raccontarne la storia. Qui è nato mio figlio: come ci sono stato io da piccolo, qui è nata una seconda generazione», ha concluso.
L’altra testimonianza era di Dario Lordi, nipote del generale fucilato alle Fosse Ardeatine, che ha raccontato con dolore come «a Genzano, dove c’era la casa in cui mio nonno teneva riunioni clandestine e nascondeva ebrei, questa settimana è stata sfregiata la lapide che lo ricorda. Porto avanti – ha continuato – la testimonianza di esempio e di dolore ereditata da mio padre, che aveva 12 anni quando il nonno morì. All’inizio non comprese bene perché decise di dare la vita per la patria sacrificando la famiglia. Lo comprese dopo e io ne ho raccolto l’eredità. Questo evento ricorda amicizie profonde: Borromeo era un amico, oltre che medico del nonno. Come era suo amico il generale Sabato Martelli Castaldi, anch’egli morto alle Fosse Ardeatine, che in una lettera scritta su un pezzetto di carta trattata col limone annotò la visita di Borromeo in via Tasso il 12 febbraio 1944».
21 novembre 2019