Nel nuovo film del trio, molte schermaglie colgono nel segno della osservazione di costume , in altri momenti il ritmo perde qualche colpo, è meno vivace e riuscito
Li abbiamo lasciati nel 2010 goffamente vestiti di bianco e rosso ne La banda dei Babbi Natale. Quattro anni dopo, eccoli di nuovo: Aldo, Giovanni e Giacomo tornano sugli schermi delle feste con Il ricco, il povero e il maggiordomo, il loro nono lungometraggio in uscita nelle sale. All’inizio Giacomo è un ricco e spregiudicato broker con ufficio nella City a Porta Nuova a Milano e con un cameriere Giovanni, cultore di arti marziali giapponesi e fidanzato di nascosto con Dolores, la cameriera messicana. Aldo è un venditore abusivo nel mercato del quartiere: vive con la burbera madre e allena una squadretta di calcio dentro l’oratorio.
Succede che la macchina guidata da Giovanni con Giacomo a bordo investe Aldo. A lui, come risarcimento, Giacomo offre una cifra in denaro e l’incarico di qualche lavoretto in villa. All’improvviso però arriva un tracollo finanziario, i soldi finiscono, i beni vengono sequestrati, Giacomo è costretto ad accettare l’invito di Aldo di trasferirsi in casa della mamma, la signora Calcedonia. A questo punto le parti sono rovesciate, e il resto della storia procede nella ricerca di un delicato equilibrio tra il ricco/non più ricco che aspira a tornare tale, il dipendente che vuole liberarsi dal rapporto con il padrone, e il povero che guarda la situazione da fuori e con maggiore freddezza.
Il tema dell’incontro tra agiatezza e povertà non è certamente nuovo, e anche il conseguente scambio di ruoli (che fa esplodere le contraddizioni) viaggia con molti precedenti di riferimento. Il punto centrale qui doveva essere il legare questi argomenti alla realtà italiana di oggi, uno sguardo più vicino sulla crisi economica, sulle conseguenze non sempre tutte visibili e controllabili. Ma il copione, scritto dai tre con altri collaboratori, è quasi obbligato ad adattarsi al taglio umoristico apprezzato e consolidato negli anni precedenti. Non c’è denuncia, non c’è polemica, o, meglio, la presa d’atto della fragilità economica, della condizione precaria del dipendente tuttofare, della generosità dell’uomo solo e senza lavoro fisso sono situazioni ritratte con intenzioni di verità annacquate da una inevitabile voglia di comicità.
Molte schermaglie colgono nel segno della osservazione di costume (partendo da un contesto milanese dove economia, arrivismo, ricerca del riscatto procedono a braccetto), in altri momenti il ritmo perde qualche colpo, è meno vivace e riuscito. Resta interessante quell’impasto di solidarietà, gestione degli affetti, presenza dell’oratorio e del parroco nel tessuto sociale che racconta la positività di affrontare ogni difficoltà con la giusta dose di sorriso.
15 dicembre 2014