In 9 anni curati 254 pazienti. Circa l’11% dei rifugiati e rischiedenti asilo e il 10% degli immigrati in marginalità sociale può presentare disturbi da stress post traumatico. Più difficile integrarsi per chi ha accoglienza peggiore
254 migranti, vittime di violenza o torture, presi in carico in 9 anni, dal novembre 2005 all’ottobre 2014; 3.630 i colloqui psicoterapeutici effettuati, con una media di 14 visite a paziente, a sottolineare la complessità e la delicatezza dell’approccio terapeutico. Solo nell’ultimo anno, 36 i pazienti seguiti, di cui 2 1nuovi, per un totale di 400 sedute terapeutiche. È racchiuso in questi “numeri” il progetto “Ferite invisibili” della Caritas di Roma, presentato questa mattina, mercoledì 5 novembre, nel corso della giornata di studio organizzata presso le Case famiglia di Villa Glori. Davanti a oltre 300 tra medici, personale sanitario e operatori sociali, il direttore della Caritas romana monsignor Enrico Feroci ha illustrato anche il libro “Quando le ferite sono invisibili. Vittime di tortura e di violenza: strategie di cura”. «Dietro le informazioni, le riflessioni e le indicazioni operative – ha commentato – ci sono le storie di vita, di vite profondamente offese dall’azione brutale di esseri umani verso altri esseri umani. Quello che qui leggiamo è la forma con la quale si vuole divulgare la conoscenza teorica e operativa di ciò che avviene in un incontro curativo amorevole e competente, rivolto a chi è scappato dal proprio Paese perché in pericolo estremo». Una fuga «a volte meditata, a volte repentina, magari con un salto dalla finestra di casa in piena notte, per non tornarci più, se non nei sogni, spesso negli incubi».
Come nel caso di M., 16 anni, africana, portata via con la forza dalla sua casa e catturata da militari che volevano estorcerle informazioni che non aveva. «Speravo solo che tutto finisse», racconta riferita alle torture a cui veniva sottoposta, e «se per finire dovevo morire, speravo di morire presto. Anche adesso risento la paura, risento le loro mani, risento la mia impossibilità di reagire e risento quel desiderio di morire». Poi, inaspettatamente, delle guardie l’hanno aiutata a scappare. «La mattina dopo ho lasciato il Paese. Da una parte sapevo di essere libera, dall’altra mi sentivo morta. Sono venuta in Italia. Mi sono di nuova sentita terrorizzata. Di nuova sola e senza sapere cosa fare». È avvenuto così l’incontro con una donna di colore che si è fermata e l’ha portata a casa sua: «Abbiamo trovato una casa famiglia».
Una storia come tante, quella di M. Come le tante incontrate, negli anni, dal gruppo di lavoro Ferite invisibili: uomini e donne che fino al 2010 arrivavano per lo più dall’Afghanistan, dalla Guinea, dalla Nigeria e dall’Eritrea; poi, dal 2011 al 2013, sono iniziati gli arrivi dalla Costa d’Avorio, seguiti da quelli da Afghanistan, Camerun e Senegal. Al momento prevalgono gli arrivi da Afghanistan, Mali e Senegal. Persone che «hanno narrato le loro storie attraverso le parole, le lacrime, i silenzi, il disagio psichico e psico-fisico – ha rilevato monsignor Feroci -, e che sono parte viva di questo testo, perché con il loro coraggio e la loro straordinaria forza sono qui, tra queste righe». A fare da filo conduttore, l’ottica di «promozione della dignità umana e del riconoscimento del diritto a ricevere cura adeguate, nell’accoglienza e nel rispetto».
«Abbiamo scelto di lavorare nelle pieghe di una sofferenza spesso nascosta – dice Salvatore Geraci, referente del progetto e responsabile dell’Area sanitaria della Caritas -, per affermare che nessuno deve essere escluso dai percorsi di accoglienza e dignità, che la salute di ciascuno è salute di tutti. Quest’ultimo anno abbiamo assistito a tanti sbarchi di persone in fuga, è stata data enfasi eccessiva ai rischi correlati alla presunta presenza di malattie infettive, oggi vogliamo invece sottolineare l’importanza di una accoglienza ed una attenzione anche nell’ambito psico sociale come premessa per un miglior futuro per noi tutti».
Secondo lo studio, circa l’11 per cento di rifugiati e richiedenti asilo e il 10 per cento di quella parte di immigrati che vivono in condizione di fragilità sociale può presentare un disturbo da stress post-traumatico (Ptsd). «Su quest’ultima popolazione di migranti emerge che in sei casi su dieci vi è una presenza di gravi traumi pre-migratori – si legge nell’indagine Caritas – in cui gli eventi più frequenti sono deprivazione materiale, scomparsa, morte o ferimento di persone care, lesioni corporee, condizioni di guerra, essere testimone di violenze sugli altri, tortura e isolamento forzato e coercizione». Ancora, in 73 casi su 100 si riscontrano gravi difficoltà di vita post-migratorie come la mancanza del permesso di lavoro o del lavoro stesso, povertà, l’impossibilità di tornare a casa in caso di emergenza e la preoccupazione per i propri cari lontani. Secondo lo studio, il disturbo si presenta con quadri psicopatologici associati ad ansia, depressione e somatizzazioni; è dimostrato inoltre che le persone che ricevono un’accoglienza peggiore, con visti temporanei o attraverso i Centri di identificazione ed espulsione, a due anni di distanza hanno più difficoltà a integrarsi nella società ospite e maggiori livelli di disagio con maggiori costi di assistenza.
Di tutte queste difficoltà raccontano le storie contenute nel volume presentato a Villa Glori. Esperienze difficili, cariche di bisogni di salute e cura; storie di profughi in arrivo da diversi luoghi di crisi geopolitica, spesso vittime di violenza o torture, approdate in Italia attraverso difficili percorsi migratori. Eppure, nonostante tutto, gli operatori Caritas restano ottimisti. «Oggi – ha osservato Marco Mazzetti, psichiatra e coordinatore scientifico del progetto – sappiamo che i traumi sono tragedie, ma non solo. La letteratura scientifica e la nostra esperienza clinica ci hanno insegnato che sono anche occasioni di crescita personale, esistenziale: parliamo di crescita post-traumatica. Oggi ci avviciniamo alle persone traumatizzate con speranza, con la convinzione di essere di fronte a un’occasione da cogliere, che gioverà al nostro assistito e alla sua salute, e alla nostra società, che avrà un soggetto di valore in più su cui contare».
5 novembre 2014