La storia di Alberto, 42 anni in “manicomio” senza motivo

Alberto Paolini racconta nel libro “Avevo solo le mie tasche” la storia di una vita trascorsa nell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà

Alberto Paolini racconta nel libro “Avevo solo le mie tasche” la storia di una vita trascorsa nell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà 

“Avevo solo le mie tasche” è un libro drammatico in cui l’autore, Alberto Paolini, mai affetto da patologie mentali, narra con disarmante crudezza i suoi 42 anni trascorsi nell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, l’ex manicomio di Roma chiuso nel 1999 in seguito alla definitiva applicazione della legge Basaglia del 1978. Nel volume autobiografico, presentato ieri sera, giovedì 2 febbraio, presso il Cesv, Centro Servizi per il Volontariato del Lazio, Paolini racconta la cattiveria, la freddezza e ogni sorta di violenza subite fin dall’infanzia, culminate, a soli 15 anni, con l’ingresso in manicomio, dove, senza alcun motivo, è stato sottoposto per tre volte all’elettroshock sperimentando anche la crudeltà di alcuni dipendenti.

Parla del dolore provato quando la famiglia che lo aveva preso in affido decise di abbandonarlo solo per il suo carattere introverso. Eppure Paolini, che oggi ha 84 anni e vive in una casa famiglia, pur riconoscendo di essere stato sottoposto ad ogni abuso lesivo della dignità umana, non tollera chi parla male del manicomio che per 42 anni è stata l’unica “famiglia” che abbia mai conosciuto. «Io mi trovavo meglio al Santa Maria della Pietà – scrive –. Stavo con i compagni che erano meravigliosi e parlavamo di tutto».

L’autore era molto piccolo quando
ha perso entrambi i genitori: il papà a soli 5 anni e la mamma a 11. Separato dalla sorella, trascorse due anni in un collegio di suore e poi fu trasferito in uno gestito dai Salesiani fino a quando una famiglia di “benefattori”, come la definisce, non decise di accoglierlo in casa. Era molto schivo e taciturno, poco incline a socializzare, atteggiamento ritenuto normale da uno psichiatra infantile che lo visitò su richiesta dei “benefattori”. Nonostante ciò fu ricoverato nella clinica neuropsichiatrica dell’università dove altri medici constatarono che non era un paziente psichiatrico ma i suoi problemi derivavano da un’educazione troppo rigida e repressiva e dai maltrattamenti subiti nei collegi.

All’epoca però, siamo nel 1947,
un paziente dimesso da neuro psichiatria o trovava una collocazione o veniva ricoverato in manicomio, ed è quanto accadde ad Alberto dal momento che nessuno volle accoglierlo. Nel libro racconta che ai pazienti non era permesso tenere nulla oltre le poche cose che potevano stare nelle tasche delle giacche e dei pantaloni, da qui il titolo “Avevo solo le mie tasche”. In quelle tasche Alberto conservava piccoli foglietti su cui iniziò a scrivere, con grafia minuta, per risparmiare spazio e carta, poesie e storie, pubblicate nella seconda parte del libro.

Come è successo ad Alberto «la chiusura
dei manicomi ha rappresentato un trauma per molti pazienti che non avevano alcun tipo di relazione con il mondo esterno» ha spiegato Giorgio Villa, psichiatra dell’Asl Roma 1 e antropologo, mentre per Pier Paola Parrella, volontaria Avo di Roma «aver ascoltato quello che ha patito Alberto deve indignarci e stimolarci ad aiutare le tante famiglie che hanno un parente con disagi psichici affinché vengano rispettati i diritti di tutti».

La presentazione del libro, del quale sono stati letti alcuni brani, è stata moderata dalla giornalista Annamaria De Luca. In sala era presente anche Adriano Pallotta, ex infermiere al Santa Maria della Pietà, che con Alberto ha ancora un rapporto “fraterno”, fautore del cosiddetto blitz al padiglione 16 dal quale scaturirono quelle regole che resero più umana la degenza nei manicomi.

3 febbraio 2017