Per comprendere la guerra tra Israele e Palestina, rileggere il classico di Yizhar

“La rabbia nel vento” conduce fino all’essenza del conflitto, lasciando in sospeso, nell’ultima pagina, una domanda che vale più di mille risposte: «E la via d’uscita?»

La rabbia nel vento di Yizhar (pseudonimo di Yizhar Smilansky), uno dei più grandi scrittori israeliani, scomparso nel 2016 a novant’anni, ha la misura del romanzo breve: ottanta pagine. Pubblicato nel 1949 e opportunamente ristampato da Einaudi nella traduzione di Dalia Padoa, sembra composto oggi. La lettura di questo capolavoro, entrato nelle scuole pubbliche e giustamente considerato alla stregua di un classico, ci consente di comprendere l’essenza del conflitto ebreo-palestinese come nessun articolo di giornale o trasmissione televisiva potrebbe fare.

Il punto di vista è quello di un soldato con la Stella di Davide, inviato, insieme ai suoi commilitoni, a distruggere un villaggio arabo. Khirbet Khiza: questo il nome della località, un pugno di case, fra orti, asini e galline. L’ordine è quello di sgomberare la popolazione. L’operazione si svolge secondo le istruzioni. Senonché, essendo il paese incustodito, le reclute si trovano di fronte soltanto vecchi, donne, storpi e bambini.

Sin dall’inizio colui che scrive, al tempo stesso uno dei militi e il narratore della storia, sente sulla propria pelle la tragedia della spedizione a cui partecipa. Ce lo comunica prima indirettamente, nella rievocazione del paesaggio domestico sprofondato nella quiete, poi, in modo esplicito, quando ricorda l’inizio della sparatoria contro i civili terrorizzati che corrono verso i cespugli nel tentativo di sottrarsi al tiro al bersaglio: «Il suono delle esplosioni era come un fiume d’acqua in un nido di formiche per coloro che scappavano».

I fucilieri impegnati nell’azione sono poco più che ragazzi: alcuni scherzano, fanno battute, altri mostrano una crudeltà di stampo adolescenziale. Soltanto il protagonista appare spaesato. Il racconto cresce d’intensità nel momento in cui il plotone israeliano entra in contatto coi pochi abitanti rimasti: anziane decrepite, svanite e perse durante l’evacuazione («Erano state abbandonate, e adesso erano esposte al sole come talpe a mezzogiorno»), donne piangenti coi bambini in braccio che urlano disperate vedendo la distruzione delle case: «Di colpo si era resa conto che stava avvenendo una cosa impensabile, tremenda, incredibile, che ora le appariva senza filtri, reale, crudele, concreta, e da cui non v’era ritorno».

«Come in un lampo mi fu chiaro. Tutto improvvisamente mi sembrò diverso, più preciso: l’esilio, ecco, questo è l’esilio. È così che accade». Tale lucida consapevolezza non produce, nell’animo sconvolto del giovane ebreo, nessuna soluzione: «Ero diventato nemico di me stesso, sotto ogni aspetto». Yizhar s’identifica in lui. Tuttavia nell’ultima pagina lascia in sospeso una domanda che vale, ancora oggi, più di molte risposte, specie se la rivolgiamo a ognuna delle parti in causa: «Il nostro cuore si era indurito. Ma nemmeno questa era la cosa principale». Poi va a capo e si chiede: «E la via d’uscita?».

31 gennaio 2024