“Western stars”, nel film di Springsteen il dolore e la speranza
Il “Boss” mette a nudo la propria fragilità attraverso il live dell’ultimo album realizzato nel suo vecchio fienile. Fino al 4 dicembre nelle sale
Il deserto, la strada, le auto, l’America. E ancora il dolore, la solitudine, l’amore, la speranza, la fede. Soprattutto la musica. C’è tutto questo in “Western Stars”, il film che racconta l’omonimo album di Bruce Springsteen uscito nel giugno scorso, in programmazione in alcuni cinema romani fino a domani, mercoledì 4 dicembre, distribuito da Warner Bros.
Un racconto narrato in prima persona dal “Boss” del rock, che per la prima volta dirige un film, con Thom Zinny, suo collaboratore. Ognuna delle tredici canzoni dell’album viene presentata dalla sua voce. Ma il film è ben più di questo. C’è il racconto di una vita, quella del settantenne Springsteen, che si mette a nudo rivelando la sua fragilità, i «lati distruttivi del suo carattere» domati – e non totalmente – da una lunghissima psicoterapia. C’è il racconto di un’esperienza sofferta attraverso le canzoni, quasi sempre metafora di una condizione esistenziale che parla a tutti. Come quando dice: «Ho passato 35 anni a tentare di capire come liberarmi dei lati distruttivi del mio carattere, e ci sono ancora giorni in cui è una fatica». Oppure: «Abbiamo tutti qualcosa di rotto. Emotivamente, spiritualmente. Nella vita nessuno se la cava senza un graffio. E siamo sempre alla ricerca di qualcuno le cui fratture combacino con le nostre, e qualcosa di integro emerge».
Affascina l’inizio con i cavalli che corrono liberi nelle ampie distese degli States, un primo piano delle api sui fiori, le riprese dall’alto sulle strade Usa che sembrano infinite (quelle strade così care al Boss di “Thunder road” o “Born to run”), i flashback con Patti Scialfa, compagna di vita da trent’anni, che duetta in più di un’occasione nei brani eseguiti nel fienile di famiglia con un’orchestra di trenta elementi di cui fa parte un’ampia sezione di archi. Così infatti, con quell’apporto originale per l’artista del New Jersey, era stato registrato il disco e così lo possiamo vedere grazie al film.
Bruce introduce le canzoni dell’album da lui definito “un gioiello” (cui si aggiunge una cover di “Rhinestone Cowboy”). Spesso raccontano di perdenti. Ecco “Hitch hiking”, un uomo fermo al ciglio della strada, “Tucson train”, un altro uomo che cerca il suo lato migliore, e ancora “Western stars”, la stella sbiadita del cinema umiliato dalla vita, “Drive fast”, lo stuntman che spinge sull’acceleratore ed è metafora del rischio, ecco “Sundown, la solitudine e l’unica speranza nel ricordo della persona amata, e poi “Stones”, dedicata alle bugie che sono come “pietre” sul cammino. Fino a “There goes my miracle”, quell’amore che rischiamo di perdere per le abitudini difficili da scalfire, e a “Hello sunshine”, che dall’attacco ricorda molto le sonorità pop di “Everybody’s talkin’, colonna sonora di “Un uomo da marciapiede”.
C’è però la possibilità di una «redemption». Per due volte si ascolta questa parola dalla voce di Springsteen e per tutte e due le volte nel film viene tradotta con “riscatto”. Ma è invece quella “redenzione” che appartiene a pieno titolo al linguaggio springsteeniano intriso dalle radici bibliche – fin dal verso “di “Thunder road” del 1975 che la conteneva -, quella “redenzione” esplosa con l’album “The rising”. Nei volti sofferti dei personaggi che costellano “Western stars” c’è la lotta continua tra dolore e speranza, la lotta quotidiana che accompagna tutti. Per questo la visione del film è un’esperienza intensa. E l’augurio finale del “Boss” intercetta il cammino di ciascuno. «Si va avanti. Nel buio, perché è da lì che sorgerà un nuovo mattino… Buon viaggio, pellegrino».
3 dicembre 2019