“Alto gradimento” per Renzo Arbore
L’artista pugliese si esibirà con l’Orchestra Italiana il 16 dicembre al Gran Teatro di Roma: canzoni napoletane e musica jazz di Concita De Simone
La sua “Bandiera Gialla” sventolò nel lontano 1965. Era il programma radiofonico di attualità discografiche internazionali dedicato ad un pubblico giovane. In studio Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, due anticipatori di tendenze che fecero della passione personale per la musica una moda per tutti. A quasi settant’anni Renzo Arbore, foggiano classe 1937, studi classici e laurea in legge a Napoli, uno degli artisti più rappresentativi della nostra tradizione in tutto il mondo, ancora continua a profondere brio e a dispensare saggezza. Nella sua poliedrica attività ha riscosso successi in vari campi: musicista e cantante con la sua Orchestra Italiana, conduttore radiofonico e televisivo. È stato anche attore, regista cinematografico e talent scout (un nome su tutti: Roberto Benigni). Nel 1991 ha fondato l’Orchestra Italiana, con quindici grandi solisti per valorizzare la canzone napoletana classica restituendo dignità, tra l’altro, al mandolino. Del presidente di “Umbria Jazz”, recentemente è uscito il doppio cd, “Renzo Arbore l’Orchestra Italiana at Carnegie Hall New York” e il suo primo dvd “Finalmente Live”. A Roma sarà sabato 16 dicembre, al Gran Teatro di Tor di Quinto, insieme con l’Orchestra italiana che in questi giorni lo sta accompagnando in una tournée tutta italiana dopo i successi internazionali.
Com’è tornare ad esibirsi in italia?
In questi giorni sono in Puglia, figuriamoci! All’estero ho suonato in locali di prestigio, come la Carnegie Hall, un vero tempio della musica classica dove si sono esibiti, come italiani, soltanto Carosone e Modugno. Lì trovavi Toscanini, Frank Sinatra o Ella Fitzgerald. Per me suonare lì era un sogno. Con l’Orchestra Italiana ho girato il mondo, in una tournée che ci ha portato dall’America all’Australia, da Tokyo a Caracas, in tutti i continenti. Avevamo debuttato a New York con il Radio City Music Hall e lì abbiamo finito. Certo, in Italia entrano in gioco altre emozioni.
Considerando che è foggiano ma culturalmente napoletano, lei ha sempre fatto integrazione culturale!
A dire il vero, mia madre è napoletana, mio fratello è nato a Napoli, mio padre ha fatto lì il dentista e io ci ho studiato per ben sette anni e ci vado sempre. La passione per il jazz mi ha portato fuori, soprattutto metaforicamente. Non capivo perché qua ci piacevano tanto i classici americani, come “Summertime” e poi ci vergognassimo di “O sole mio”. Io ho cercato di rilanciare la canzone napoletana classica, rendendola un po’ internazionalizzata, con influenze latino-americane.
Lei che l’ha vissuto, come vede il fenomeno dell’emigrazione e, musicalmente parlando, come possiamo interagire con gli immigrati da noi di oggi?
Intanto, bisogna dire che gli italiani all’estero sono cambiati moltissimo, e in Italia ne persiste un’immagine falsata. Ormai ci sono nipoti e pronipoti degli emigrati con la valigia di cartone. È singolare pensare come ai miei concerti vengano tutti gli italiani, non solo i napoletani e quindi, magari, neanche capiscono quello che dico e canto. Ma riconoscono le radici, imparano il suono del mandolino, che evidentemente fa parte del dna dell’italiano. Io credo che abbiamo tutti dentro “la tradizione” – di qualunque provenienza – e vada aggiornata, rivitalizzata e fatta conoscere agli altri; questo vale per tutti. Da parte nostra ci vuole solo curiosità. Ho vissuto anch’io dei momenti di solitudine, durante il mio essere emigrato, ma la musica ha fatto da collante.
E poi c’è il jazz, colonna sonora del secolo scorso. Quanto, secondo lei le trasformazioni socio culturali hanno influito sulla storia della musica?
Moltissimo. Il jazz è stato ed è una vera e propria rivoluzione. Prima del jazz, a parte certi canti popolari, la musica non era improvvisata e il jazz ha così scatenato un putiferio, perché non era musica scritta che si avvaleva del disco. E poi ha insegnato a celebrare il ritmo, ha inventato degli strumenti, come la batteria. La cosa più interessante è che nell’arco di questi anni ha racchiuso tutte le influenze della musica e dei paesi del mondo, diventando jazz da camera, lirico, etnico, contaminandosi con il tango o la bossa nova.
Perché secondo lei in tv gli spazi musicali sono sempre più ridotti e non si ha più coraggio di proporre musica dal vivo, magari un Doc, come fece lei?
Si dice che la musica non paga. Io credo che scegliendola sapientemente e mescolandola, si possa proporre. Certo, dando quella musica che piace al colto e all’inclita, cercando di ragionarci sopra, di venderla bene. Oggi un nuovo talento dovrebbe ricorrere alla radio, ma anche adesso ormai la musica in radio ha tempi strettissimi, con canzoni ridotte a due minuti e mezzo. Le canzoni sono affidate alle play list, che, per la verità, abbiamo inventato io e Boncompagni, ma noi le sceglievamo in base assolutamente ai nostri gusti. Oggi invece anche dj di grande talento che potrebbero contribuire ai nuovi successi sono condizionati dall’imprimatur discografici e fanno solo gli annunciatori di musica scelta da altri. Per fare musica di qualità, bisogna avere coraggio. Il jazz lo insegna.
Sito ufficiale: www.arboristeria.it
7 dicembre 2006