Fiorella Mannoia, la musica per l’integrazione
La cantante romana, al Palalottomatica il prossimo 24 marzo, racconta il suo nuovo disco. Un album per parlare del “Sud” del mondo. Sul palco con lei giovani artisti brasiliani del Projecto Axé di Concita De Simone
Con lo sguardo a sud: è questa la Fiorella Mannoia che si presenta con il suo nuovo album intitolato semplicemente, dichiaratamente “Sud”, uscito lo scorso gennaio. Un concept-album, come quelli di una volta, dedicato alla voglia di riscatto di quella parte di mondo «saccheggiata, violata, tenuta lontana dal progresso, dall’America latina all’Africa, terra di conquista per eccellenza», come scrive in una nota di presentazione dell’album la stessa Mannoia. Con un’attenzione anche per il Sud Italia, attraverso un omaggio a Napoli rappresentata da un brano che mette in musica Quanne vuò bene, una poesia scritta da Titina De Filippo, per la prima volta ceduta per una canzone. Tra gli altri autori, oltre a Fossati, che stavolta firma la musica di un testo di Fiorella, Luca Barbarossa e Bungaro, entrato nel mood della Mannoia in più di un brano.
Ora Fiorella Mannoia torna ad esibirsi dal vivo con il suo nuovo tour nei palasport e nei teatri più importanti d’Italia e farà tappa a Roma il 24 marzo al Palalottomatica. Sul palco nei palasport, un’ospite d’eccezione: il rapper Frankie Hnrg, che ha scritto ed interpretato insieme a Fiorella il brano Non è un film, contenuto nel nuovo disco, oltre a dieci ragazzi brasiliani tra ballerini, percussionisti e coristi del Projecto Axé, di cui parla lei stessa in questa intervista dai toni molto appassionati che solo chi crede in quello che fa sa avere.
Hai definito il tuo nuovo album «un’esperienza umana prima che musicale». Perché?
Il viaggio umano è stato incontrare questi musicisti che hanno collaborato al disco, soprattutto africani. Devo molto a Gabin Dabiré, un musicista del Burkina Faso che vive a Firenze e parla un ottimo italiano. Mi ha fatto scoprire la figura del suo connazionale Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dal 1984 al 1987. Un personaggio di grande carisma, che in Africa è più conosciuto di Mandela e al quale ho dedicato il brano Quando l’angelo vola. Sankara era convinto che l’Africa potesse vivere con le proprie risorse e sfidò le grandi potenze mondiali rifiutandosi di pagare un debito che non gli apparteneva, ma per il suo coraggio è stato assassinato a 38 anni. Eppure, ha insegnato che le idee non muoiono. Conoscere questa sua passione politica mi ha illuminata. Da noi la politica sembra non essere più una cosa seria, solo barzellette e cabaret. Sankara faceva in Africa discorsi sull’emancipazione femminile già trent’anni fa; noi pensiamo di essere evoluti ed emancipati, ma poi basta guardare in cronaca come vengono trattate le donne.
Io non ho apura, un inno alla speranza nel tuo album: «di quello che non so capire, di quello che non puoi vedere, di quello che non so spiegare, di quello che ci cambierà». Credi che la gente abbia più paura o sfiducia?
Paura e sfiducia sono collegate. Non demonizzo la paura, fa parte degli esseri umani. È leggitimo mettersi sulla difensiva come è vergongoso strumentalizzare la paura per metterci gli uni contro gli altri. Chi lo fa compie terrorismo psicologico, magari solo per accaparrarsi voti. Invece la nostra è una società destinata ad essere multirazziale. E il mio è un disco di fratellanza, di amore, un invito a guardarsi negli occhi senza paura.
Quelle che ascoltiamo in “Sud” sono le tue prime canzoni di cui hai firmato i testi. C’è un motivo per cui hai aspettato tanto?
Me lo chiedo anch’io. Forse avevo tropo pudore di non essere all’altezza, come quelli che hanno scritto per me, da De gregori, a Fossati. Io tendo a pensare che ogni cosa abbia il suo tempo. Questo disco mi ha toccato profondametne. Ho scelto io il tema di fondo, dopo aver letto il libro di Pino Aprile “Terroni”, che racconta di quanto il sud Italia da ricchissimo sia stato depredato negli anni. E allora, con Carlo Di Francesco, il produttore, che è anche percussionista, si è partiti proprio dai tamburi per rievocare i suoni del sud del mondo. Ho preso la penna e mi sono sentita ispirata, come succede di solito agli altri. Mi sono messa nei panni delle madri che non vedono tornare i propri figli e ho scritto, anche se invidio a Luca Barbarossa il testo di Luce una canzone bellissima sulla compassione, una delle più commoventi di tutto il disco. Io ho scritto invece ad esempio, Se solo mi guardassi, musicata poi da Fossati, una canzone che prende il punto di vista dei tanti invisibili fratelli stranieri che vivono intorno a noi, ai quali non chiediamo mai nulla delle loro vite e che avrebbero in realtà tanto da raccontarci se solo avessimo voglia di ascoltarli. Il fatto è che noi italiani non sappiamo immedesimarci. La compassione fa parte della nostra cultura cristiana, ma non ne siamo più capaci.
Ci parli del Projecto Axé, da cui provengono i ballerini del tour?
Conoscevo questo progetto già da qualche anno, ma non avevo mai avuto l’opportunità di collaborarci. Si tratta di un’organizzazione non-profit nata nel 1990 in Brasile ad opera dall’italiano Cesare de Florio La Rocca, che ha vissuto lì per quasi 50 anni, con l’obiettivo di recuperare bambini e ragazzi di strada, che vivono in situazioni di miseria e degrado, e sono esclusi dalla famiglia e dalla società. Il recupero avviene attraverso il sogno dell’arte, della danza, della musica della recitazione, delle arti classiche. Tutto quello che questi ragazzi sognano ma che non riescono a realizzare per le ingiustizie sociali. Con il tour non solo abbiamo portato in Italia questo gruppo di professionisti che sono diventati a loro volta educatori, ma li facciamo incontrare con altri educatori di centri analoghi nelle nostre città, come don Luigi Merola a Napoli. A Roma ci siamo gemellati con la casa famiglia Piccoli Passi di Acilia; inoltre, al concerto sono invitate delegazioni delle associazioni che si occupano di integrazione.
Un tour nei Palasport per presentare un album molto poetico e denso di contenuti, ma che atmosfera si crea?
Per questa prima parte del tour, con la band di 12 musicisti, più me, più i ballerini brasiliani, eravamo troppi per i teatri, dove andremo nelle prossime date. Così abbiamo scelto otto Palasport in altrettante città per un concerto dove si crea anche intimità e che certo nei teatri creerà maggiore raccoglimento, ma dove principalmente si scatena tanta energia e la gente fa fatica a rimanere seduta.
23 marzo 2012