La “Via d’uscita” di Ron
Il cantautore si racconta prima del concerto al Crossroads, live club in Via Braccianese, dove l’8 febbraio presenterà i brani del nuovo “Way out” e i vecchi successi di Concita De Simone
Dopo quasi cinque anni di assenza discografica, fatta eccezione per alcune collaborazioni e per una breve esperirenza come tutor di un talent show di Rai Due, Ron torna sulla scena con una “Via d’uscita”. “Way out” é infatti il nome del suo ultimo album, uscito il 29 gennaio in tutta Italia e sulle diverse piattaforme digitali. Un omaggio che Ron, al secolo Rosalino Cellamare, ha voluto rendere alla nuova scena cantautorale anglo-americana, traducendo accuratamente e interpretando in italiano dodici canzoni di autori non molto conosciuti da noi, come Damien Rice di “Palla di cannone”, Michael Kiwanuka di “Mi sto preparando”, The Weepies di “Non si torna indietro e molti altri ancora. Nonostante Ron nella sua Garlasco abbia uno studio di registrazione nel cortile di casa, ha voluto registrare i brani in presa diretta rimanendo in salotto, con gli amici musicisti di sempre: Fabio Coppini al pianoforte, Elio Rivagli alla batteria e percussioni, Roberto Gallinelli al basso, Alessandro Valle alle chitarre e al dobro e Giovanna Famulari al violoncello e voce. Nell’album spiccano anche collaborazioni come quella con Omar Pedrini che affianca Ron nel controcanto di “Orgoglio Antiproiettile” o la giovane Gaia Pasquali in “Non si torna indietro”, allieva della nuova scuola musicale fondata da Ron, o ancora artisti come Marco Lodola che ha creato l’immaginario visivo del progetto. Una precisa ricerca di semplicità ma anche una voglia di intimità che si ritrova nelle tappe del tour che da qualche giorno é partito per promuovere l’album e che sarà a Roma, al Crossroads, live club in via Braccianese il prossimo 8 febbraio.
Ron, che ci fai nei piccoli club: come mai questa scelta cosí intima?
Ho affrontato un modo nuovo anche nell’approccio al lavoro. Non mi andava di fare il classico disco, con il singolo apripista, e ho cercato qualcosa di diverso. Volevo trovare una mia risposta alla crisi, non solo economica, che viviamo in questo periodo così difficile. È una crisi che ci lascia senza parole e senza fiato, marmorizzati, senza sapere dove guardare. Ascoltando su youtube, Damian Rice che mi piace moltissimo per la sincerità, la trasparenza, la sua non curanza di effetti che possano dipingere di un colore diverso quello che lui ha dentro, ho scoperto artisti simili a lui che non conoscevo. Ragazzi giovanissimi che sono già cantautori capaci di scrivere cose meravigliose, che dimostrano, dai loro testi, di avere una grande forza di resistere per trovare una via di uscita. La crisi è internazionale, fa male a tutti. Davanti a questo materiale ho assunto un atteggiamento diverso. Non me la sentivo di andare in studio e ufficializzare tecnicamente e tecnologicamente questo disco ma lo volevo senza orpelli, trasparente, cercando un suono caldo con un band di amici, senza preoccuparci delle imperfezioni tecniche. E vorrei riproporre l’atmosfera del mio salotto di casa anche al pubblico, ecco perché ho scelto i piccoli club. Per me è una grande soddisfazione tornare a fare musica come si faceva una volta.
Questo lavorare senza orpelli se lo può permettere chi ha tanta esperienza come te alle spalle ed è sicuro della propria voce, della propria musica.
Certo, lo puoi fare con un background ricco alle spalle. Io amo la musica in toto. Imparo non solo la canzone, ma anche il suono. La tv sta “televisionando” troppo la musica, la rende un po’ troppo finta. Promette successo immediato, in un meccanismo perverso in cui passa prima la faccia e poi la voce. Magari ci sono anche belle voci, bravi interpreti, ma ci vogliono i cantautori.
“Way out” quindi dalla crisi?
Sì, cercavo una mia via di uscita, ma ognuno può fare questa ricerca con il proprio lavoro. Ci vuole solo rispetto per gli altri e per se stessi. La gente si accorge se quello che comunichi è vero e se lo fai con amore.
Hai tradotto personalmente i brani?
Mi ha aiutato un bravissimo musicista, Mattia De Forno del gruppo romano “La scelta”. Il lavoro non è stato facile, perché l’inglese ha tutte parole tronche, mentre in italiano abbiamo le sdrucciole. È stato Lucio Dalla ad insegnarmi questo metodo. Ricordo l’epoca di “Una città per cantare”, che Dalla stava traducendo dal brano “The Road” del cantautore statunitense Danny O’ Keefe, già incisa da Jackson Browne. Io badavo alla musica e gli dicevo “Non puoi cambiare ogni finale di parola”, ma lui riusciva a rendere i testi in italiano, cambiando delle parole senza stravolgerne il senso. Quando Jackson Brown è venuto in Italia, gli ho fatto sentire la versione di Dalla e lui ha detto che la preferiva all’originale.
Hai fondato una scuola musicale e recentemente hai fatto anche esperienza di tutor vocale in un talent show televisivo. Come ti sembrano i giovani di oggi che si affacciano alla tua professione?
Nella mia scuola nessuno entra se non impara almeno uno strumento. I miei alunni devono saper cantare, suonare e scrivere. Quando ho iniziato io, a Sanremo nel ’70, cantavo e basta, avevo 16 anni. Ma dopo pochi anni ho sentito la necessità di scrivere, anche perché Lucio Dalla mi disse “Oh, adesso te li scrivi da solo”. I giovani devono capire che fare musica non è solo una passione ma è un lavoro. Sono convinto che ci siano bravi cantautori in giro, ma non si presentano in tv. Tempo fa è venuto da me un ragazzo pugliese, proprio bravo, senza tante possibilità economiche. È partito da casa sua perché voleva farmi ascoltare le sue cose. Così fece Biagio Antonacci, che faceva il carabiniere a Garlasco e si presentò con un mazzo di fiori per mia madre. Arrivò con sue canzoni scritte. Mi disse “Amo molto Fabio Concato, ma mi vai bene pure tu”.
Cosa ti aspetti da questo tour?
Mi aspetto l’ascolto. Èmolto difficile farsi ascoltare al giorno d’oggi. Sono stato due mesi in America e ho girato tanti locali dove si suona dal vivo. Una sera sono andato in uno di questi con la chitarra, in anonimato, e ho chiesto di fare un pezzo. Aveva appena finito di cantare una donna nera con una voce pazzesca alla Aretha Franklin, e mi ha detto che non c’era problema, che se volevo potevo cantare, anche in italiano. Ho cantato “Anima” in un silenzio di tomba, e poi mi hanno applaudito e incoraggiato. Da noi c’è meno rispetto per la musica e per chi la fa. Ma sono convito che la gente ami le scommesse di chi vuole scommettere.
1° febbraio 2013