Se Rain Man fosse seduto al mio tavolo?
L’autismo è un disturbo che colpisce soprattutto i maschi: in media un bambino ogni 1000 nati. I sintomi si manifestano entro i primi 2 anni di vita, colpendo il linguaggio e la comunicazione di Angela Dassisti
Seduto ad un tavolo tutto solo c’è un uomo che discute con la cameriera perché manca il piatto del giorno. «Oggi è martedì e c’è il pollo nel menù del martedì, non è possibile che non ci sia il pollo», continua a sottolineare l’uomo, mentre riordina nervosamente gli oggetti sul tavolo. Non sembra accorgersi di aver alzato la voce e dell’imbarazzo della ragazza che aumenta. Non la guarda, si dondola nervosamente, fissa lontano e si strofina le mani chiedendole nuovamente di avere del pollo.
Negli ultimi vent’anni la cinematografia ha messo in primo piano dei profili patologici molto particolari, spingendo il grande pubblico ad interrogarsi sulla disabilità e sulla diversità cognitiva meno visibile e nota. Nomi come Ray, Forrest, Sam e John evocano scene e battute famose, che hanno emozionato e commosso, enfatizzando talvolta le caratteristiche di persone particolari e bizzarre.
L’autismo nosograficamente rientra nella categoria dei disturbi pervasivi dello sviluppo, è caratterizzato da marcata e persistente compromissione dell’interazione sociale, della comunicazione verbale e non verbale e dalla presenza di comportamenti, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati. Con maggiore prevalenza nei maschi, la relazione é di circa 1 bambino ogni 1000 nati. L’età di insorgenza o il manifestarsi di alcuni sintomi si colloca generalmente entro i primi due anni di vita, in cui si osserva, in seguito ad uno sviluppo normale, la regressione di abilità cognitive quali il linguaggio e la comunicazione.
Si osservano tuttavia diversi profili e differenze specifiche nell’autismo; per cui alcuni bambini presentano ritardo mentale, grave ritardo del linguaggio e difficoltà marcate nel comportamento adattivo. Altri individui, invece, mostrano un livello cognitivo buono, in alcuni casi alto (high functioning), ma la compromissione nell’interazione sociale, con competenze pragmatiche linguistiche e comunicative deficitarie e scarsa empatia.
La difficoltà a mettersi nei panni dell’altro non significa che siano individui insensibili, tutt’altro, non riescono a riconoscere i segni non verbali e contestuali delle emozioni sia sulle altre persone che su sè stessi. Appaiono caratteristici inoltre gli interessi ristretti, ad esempio per oggetti o parti di oggetti, l’ipersensibilità ai rumori, agli odori particolari e la difficoltà a toccare alcune superfici, per una eccessiva sensibilità tattile.
Queste persone, che non mostrano segni fisici di ritardi, sono silenziosi, riservati, a tal punto da non incrociare mai lo sguardo dell’interlocutore; eppure sono attenti ai minimi dettagli ed al più piccolo cambiamento, tanto da essere suscettibili alle variazioni improvvise, destabilizzandosi.
Anche la famiglia viene scombussolata dalla nascita di un figlio autistico, poiché deve far fronte a esigenze molto particolari e necessità specifiche, quali: allergie alimentari, epilessia, malattie virali o disturbi metabolici. In ogni caso un figlio con una disabilità cognitiva comporta un enorme carico di lavoro per la famiglia, sia nelle attività quotidiane, che più in generale nell’organizzazione dei numerosi interventi: cognitivi, psico-educativi e didattici.
Nonostante gli sforzi l’integrazione delle persone autistiche è faticosa, sia per le peculiarità cognitive (difficoltà nel processare velocemente gli stimoli ambientali), che per le caratteristiche comportamentali (difficoltà a gestire il proprio comportamento). Negli ultimi anni, ad esempio, la conoscenza dell’autismo e la possibilità di usufruire di aiuti specifici (terapisti, assistenti, insegnanti di sostegno) ha reso meno gravoso l’inserimento scolastico, ma la crescita e l’aumento delle differenze con i coetanei non sembrano favorire appieno l’integrazione sociale. L’autismo non è una malattia per cui sia stata ritrovata una vera cura o dalla quale si può guarire, piuttosto rappresenta un quadro con difficoltà generalizzate, per il quale è necessario un intervento globale, che modifichi l’ambiente e intervenga sul singolo individuo.
Per favorire lo sviluppo e l’inserimento delle persone con questo tipo di disabilità è necessario il cambiamento delle proprie consuetudini e del proprio punto di vista; bisogna adottare modalità appropriate alle esigenze specifiche ed incoraggiare l’autonomia degli individui. Per questo le famiglie non vanno lasciate sole, ma sostenute e guidate nel difficile compito di essere un punto di riferimento per i propri figli, spingendoli alla crescita e alla realizzazione di sé stessi, anche se significa raggiungere mete concrete e prefiggersi traguardi semplici eppure lontanissimi.
9 febbraio 2012