Educare le nuove generazioni: uno sguardo sull’età apostolica nelle lettere di Paolo a Timoteo
di Andrea Lonardo
«Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tim 1,5): le cosiddette lettere pastorali, cioè le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, abitualmente indagate come documenti che permettono di cogliere lo sviluppo del ministero nella chiesa, sono anche uno specchio di come i primi genitori cristiani vivessero l’educazione delle nuove generazioni.
Le lettere a Timoteo parlano della terza generazione cristiana: Timoteo ha ricevuto la fede tramite la madre Eunìce e costei, a sua volta, da Lòide che ora è nonna di Timoteo. Il Nuovo Testamento è così testimone che, non appena si diventa cristiani, subito la fede viene trasmessa ai propri figli e nipoti. Il piccolo Timoteo non deve attendere la sua età matura, ma fin da piccolo riceve il dono di quei riferimenti e di quei valori che sono il tesoro prezioso di chi lo ha chiamato alla vita.
La seconda lettera aggiunge un particolare di questa precoce iniziazione alla fede: «Fin dall’infanzia conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù» (2 Tim 3, 15). Il padre di Timoteo era pagano, la madre ebrea, ma non lo aveva circonciso. Aveva, però, evidentemente accompagnato suo figlio, fin dalla tenera età, a conoscere la rivelazione di Dio, secondo la più bella tradizione ebraica. Eunìce gli aveva fatto conoscere non solo i libri dell’Antico Testamento, ma anche quel Gesù che era la chiave per comprendere quei testi ed il loro più vero significato, poiché la salvezza promessa raggiungeva gli uomini per la fede in lui.
Se le due lettere a Timoteo aprono uno squarcio sull’educazione dei figli, specularmente non parlano astrattamente della condizione adulta, ma si rivolgono a mariti e mogli, a padri e madri, a vescovi e diaconi, a famiglie e vedove. La teologia moderna ha formalizzato nel concetto dello “stato di vita” ciò che è già evidente nella vita dei cristiani del Nuovo Testamento: se un giovane è tale perché è ancora in ricerca della propria vocazione, l’adulto si caratterizza proprio per quelle relazioni definitive che costituiscono la forma specifica del suo dono. Egli è adulto, proprio perché è marito e padre, o perché è vescovo o diacono o ancora perché ha accolto pienamente la condizione di vedovanza.
La definitività della vocazione non riguarda solo i presbiteri ed i diaconi, per i quali l’autore raccomanda di non aver fretta ad imporre le mani, e nemmeno semplicemente coloro che sono stati chiamati al matrimonio, ma addirittura è tratto essenziale di coloro che hanno subito la condizione vedovile e sono ora chiamate a sceglierla o ad uscirne risposandosi: «Onora le vedove, quelle che sono veramente vedove… Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, per non dare all’avversario nessun motivo di biasimo» (cfr. 1 Tim 4, 3-16).
L’odierna catechesi che sceglie di parlare sempre più di famiglia, piuttosto che semplicemente di adulti, rispecchia proprio questa coscienza della centralità delle relazioni personali, delle scelte che costituiscono la condizione tipica dell’adulto. Egli non educa solo perché si rivolge ai più piccoli, ma anche e soprattutto perché vive con serena responsabilità la propria vita, proponendosi così come modello e testimone.
La prima formazione ricevuta da Timoteo non è però sufficiente. Essa non può mai essere semplicemente presupposta, proprio perché la persona è viva ed affronta situazioni sempre nuove. «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (1 Tim 1, 6-7): così afferma l’autore subito dopo aver parlato dell’educazione che Timoteo ha ricevuto dalla nonna e dalla madre.
È una educazione che si deve misurare anche con la fatica della lettura e del pensiero – «Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura» (1 Tim 4, 13), come, d’altro canto, a Timoteo viene chiesto di farsi portatore dei libri necessari per Paolo: «Venendo, portami il mantello che ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene» (2 Tim 4, 13).
Soprattutto, la conoscenza della affidabilità della rivelazione – «So a chi ho creduto» (1 Tim 1, 12)- si è ormai tramutata nel dono che Timoteo fa di se stesso come testimone della fede: «Soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (2 Tim 1, 8). Egli non è più come «coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità» (2Tim 3, 7), ma può ormai sentirsi dire da Paolo: «Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2, 2).
Per questo una vera educazione non si rivolge semplicemente alla persona stessa, ma la apre a vivere pienamente nel mondo per poter condividere con ciascuno i doni ricevuti da Dio. Timoteo è così invitato ad avere sempre presenti tutti nel suo sguardo e nella sua preghiera – «Ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1 Tim 2, 1-6). Per Timoteo, come vescovo, valgono le raccomandazioni ad essere ospitale, capace di insegnare, benevolo, non litigioso (1 Tim, 3, 2-3); infatti «è necessario che [il vescovo”> goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo»( 1 Tim 3, 7).
La critica moderna si è spesso domandato chi sia l’autore delle pastorali, poiché esse utilizzano un linguaggio differente dalle lettere sicuramente autentiche di Paolo, ma,d’altro canto, sono piene di riferimenti a fatti che possono provenire solo da un intimo conoscitore dell’apostolo. Una proposta recente del prof.Giancarlo Biguzzi ipotizza, con buona probabilità, che l’autore possa essere lo stesso Timoteo che avrebbe fuso insieme –da qui la non piena organicità della disposizione finale delle lettere- i suoi ricordi dell’apostolo, i cosiddetti personalia contenuti nelle lettere pastorali.
13 giugno 2008