Giovanni Tommaso: 50 anni di jazz
Grande evento per festeggiare il contrabbassista, martedì 30 settembre all’Auditorium Parco della Musica di Concita De Simone
In un’epoca musicale in cui già parlare di “carriere” è una cosa rara, vista la massiccia presenza di meteore, festeggiare 50 anni di attività è realmente un evento. Quando poi l’anniversario è jazz, e per celebrarlo si organizza un concerto, è facile immaginare un palco pieno di musicisti che nella storia hanno lasciato il segno. Si tratta dei 50 anni di jazz di Giovanni Tommaso, sessantasettenne contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e talent scout, che verrà festeggiato all’Auditorium Parco della Musica il prossimo 30 settembre. Durante il concerto Tommaso si esibirà in ben nove formazioni che vedranno, in ordine cronologico: Quartetto di Lucca, la sua prima e più formativa esperienza; Perigeo, storico gruppo jazz-rock degli anni ’70; GT Quintet; Tommaso/Bollani/Gatto trio; il suo attuale gruppo Apogeo. Sul palco anche la figlia di Tommaso, Jasmine e una grande Jam Session finale. Ogni formazione sarà introdotta da un giornalista/critico testimone dell’epoca, come Gino Castaldo, Franco Fayenz, Dario Salvatori, tutti coordinati da Marco Molendini. Giovanni Tommaso, è tanto affascinante all’opera – con quell’eleganza che appartiene al passato e guizzi estrosi tipici di chi cerca continui cambiamenti – quanto nel racconto della sua biografia, quando snocciola con umiltà i suoi successi facendo trapelare le emozioni per averli vissuti.
Com’era il jazz 50 anni fa?
La prima cosa che mi viene in mente è che eravamo pochi. Quando iniziai, subito i critici mi definirono il bassista italiano più bravo e uno dei migliori europei. Non voglio fare il modesto, ma è perché, appunto, c’era poca concorrenza. Io a 18 anni sono andato a New York e lì ho imparato cose che non trovavo sui libri, perciò, tornato in Italia, suonavo “all’americana”, ed è stato più facile emergere. Oggi, invece, ovunque c’è un bravissimo contrabbassista. Un’altra differenza è soprattutto per quelli della sezione ritmica, come pianisti, bassisti, batteristi. Una volta i grandi musicisti americani, per limiti di budget, venivano da soli, formando un gruppo in ogni Paese dove andavano; così ebbi la fortuna di suonare con grandi musicisti, come Sonny Rollins, Dexter Gordon, Gil Evans, Chet Baker, e tanti altri. Sono opportunità oggi impensabili, perché i gruppi arrivano già formati e agguerriti.
Sul finire degli anni 60, a Roma, lei visse una corrente di jazz d’avanguardia, con altri musicisti provenienti da Africa, Europa e Stati Uniti. Un esperimento di integrazione umana prima che musicale.
C’era un clima molto costruttivo e creativo. Era il gennaio 1967 e mi stabilii a Roma dalla Toscana. Poco dopo si formò un nucleo irripetibile che faceva capo a Steve Lacy, un grande sassofonista newyorkese. Ci trovavamo a via Garibaldi, fuori dal Folk studio a discutere di jazz.
Come è cambiato, negli anni, il suo jazz?
Adoro i cambiamenti. Ho sciolto il Perigeo nel 1977, nel periodo di maggiore popolarità, perché ormai girava su se stesso. Eravamo vittime del periodo della contestazione. Nessuno pagava il biglietto e i gestori dei locali dove si suonava addebitavano al gruppo i danni. Siamo stati fiaccati da questo periodo. Avevo voglia di cambiare. Dopo aver provato anche a cantare, giusto per sfidare me stesso, con il New Perigeo, ho abbandonato il jazz elettrico per la musica acustica, formando vari quintetti in cui si sono avvicendati tanti giovani. Trent’anni dopo la fine del Perigeo è nato Apogeo, un gruppo con lo stesso organico ma con musicisti diversi. Mi sono detto: “Fai una bella scommessa, spremiti le meningi e scrivi musica che non hai mai sentito prima!”. Sono entusiasta del risultato. E poi, sono stato il primo jazzista a registrare colonne sonore per il cinema (ha vinto anche un David Donatello per le musiche di “Ma quando arrivano le ragazze?”, di Pupi Avati, ndr). E mi sono occupato anche di musica leggera. Alla RCA mi proposero un contratto come artista, cantante, arrangiatore e produttore. Iniziai come arrangiatore di Cocciante, per cui firmai tra l’altro “Cervo a primavera”, un grandissimo successo. Poi lavorai con Mina, Oxa, Rino Gaetano, Ivan Graziani. A un certo punto mi stancai perché stavo guadagnando troppi soldi ma facevo meno concerti. Quando mandai la lettera di disdetta mi chiamarono per sapere se fossi impazzito. Non me ne pento.
Lei è stato anche tra i pochi a incidere per una grande casa discografica, la RCA, piuttosto che per una produzione indipendente, come avviene di solito nel jazz italiano. Ma come è cambiata la considerazione del jazz nel nostro Paese?
La discografia delle major sembra un po’ in crisi nei confronti del jazz. La stessa RCA, che ormai ha cambiato vari nomi, non fa che rieditare materiale vecchio. Con le altre case devi quasi pagarti tu il disco. Ho vissuto sulla mia pelle la metamorfosi del mercato discografico. Ricordo episodi provanti. Per l’ultimo disco, Melis, capo della mia casa discografica all’epoca del Perigeo, venne a sentire le prove e mi chiese dove lo volessi incidere. Io risposi: “In America!”. Beh, ci diedero un budget di sopravvivenza pazzesco, grandi alberghi, macchine lussuose per spostarci. Poi nel giro di pochissimi anni non c’erano più neanche i soldi per andare a prendere i musicisti all’aeroporto. Adesso è ancora peggio.
19 settembre 2008