Grazia di Michele, il “respiro” come terapia
Cantautrice romana che nella sua carriera ha dato vita a un istintivo, raffinato, sfaccettato “canto al femminile” di Concita De Simone
«Una bella voce»: è quanto si pensa ascoltando Grazia di Michele. Si resta sempre affascinati dal connubio voce-note con le sue canzoni, ma anche avvolti dal suo tono caldo e profondo semplicemente quando si racconta. È successo anche a noi durante la di presentazione del suo nuovo album intitolato «Respiro», uscito lo scorso 20 gennaio. Un lavoro che ha già fatto parlare di sé per una canzone in particolare, “Habi”, il brano che l’autrice e musicista romana ha scritto su una drammatica vicenda della nostra cronaca purtroppo non insolita: quella della donna kamikaze palestinese che si fece esplodere nel maggio del 2003 in un centro commerciale di Afula in Galilea. Dunque un’altra donna che aggiunge un tassello, questa volta inedito ed estremo, all’universo espressivo di Grazia Di Michele, che nella sua carriera ha dato vita ad un istintivo, sfaccettato, raffinato “canto al femminile”, tra i più convincenti della scena italiana.
Erano gli inizi degli anni Ottanta quando la cantautrice, esile ma determinata dietro alla sua chitarra acustica, si affacciava sulla scena musicale italiana partendo da un luogo mitico dell’epoca deputato a far nascere talenti: il Folk Studio di Roma, frequentato da De Gregori e Venditti, solo per citarne alcuni. Gli ingredienti delle sue composizioni sono sempre stati intimismo e sentimento, ma anche temi sociali, attenzione civile, cronaca. Dove le parole godono del fluire lieve delle note. “Respiro” ne è una conferma. E non poteva avere titolo migliore: ampi sono i respiri dei testi che, accompagnando le parole, lasciano segni di indelebile profondità; ampi sono i movimenti di una veste sonora che dispensa carezze di jazz e latino, molta acustica, echi di folksong, pop d’autore.
Grazia Di Michele, il tuo album si apre con una canzone molto forte, «Habi». Ce ne parli?
È una canzone che parla di una terrorista kamikaze palestinese, storia vera che risale al 2003. Quando lessi la notizia, cercai di immedesimarmi in lei per capire che cosa mai potesse spingerle a compiere un gesto così estremo nel pieno della sua vita. Le risposte erano e restano difficili, perché anche analizzando i contesti dove certi fenomeni accadono, dove c’è una cultura della morte, restano comunque fenomeni inconcepibili per noi. A differenza di quanto mi è accaduto per altre storie, nel caso di Habi non ho potuto immedesimarmi e provare empatia, perché si tratta di una persona che compie un gesto orribile, che uccide degli innocenti. Quello che mi ha catturato di questa vicenda è il contrasto tra la bellezza, la speranza di felicità, la vocazione agli affetti familiari che ogni donna, portatrice di vita, dovrebbe portare in sé, e la tirannia di un odio che in questo caso è più forte dell’amore.
Tu hai iniziato la tua carriera negli anni ‘80 al mitico Folk Studio. Come era la situazione musicale all’epoca?
Era l’epoca della nascita musicale del fenomeno “cantautori” e quindi c’era grande curiosità. Non era difficile incontrare De Gregori, Venditti o Cocciante con la chitarra in mano, mentre provavano le loro canzoni. Tutta questa musica che girava, faceva scaturire nuovi stimoli. Era un bel momento.
Adesso quali sono gli spunti per la tua ispirazione?
Sono le storie. Storie di chi mi sta intorno. Come in “Cammineremo sulle acque”, nata per un mio amico malato di Aids. Quando ho cominciato ad andarlo a trovare, ho visto una persona che si era arresa alla vita. E allora io ho cercato di cantare per lui la speranza.
Il tuo stile non è poi cambiato tanto negli anni e questo ti fa onore…
Non lo so se mi fa onore, ma in realtà sono fedele a me stessa, anche crescendo e ascoltando altre cose, quindi subendo altre influenze. Penso di avere uno stile personale, fatto però anche della musica che ho metabolizzato e amato. L’occhio attento verso l’esterno, poi, rimane sempre vigile. In “La storia di Irene” racconto un po’ la mia vita. Una ragazza che, ad un certo punto, ha un illuminazione e capisce che nella vita vuole cantare, allora impugna la chitarra e se ne va in giro per il mondo. Il ritmo allegro di questo brano viene reso dalla melodia saltellante di una “giga” dal sapore irlandese che mi piace molto.
Nella tua biografia ufficiale c’è un riferimento incisivo alla tua maternità e si legge anche di un corso di formazione in musicoterapia e del tuo impegno sociale rivolto ai bambini e ai disabili, che stai portando avanti in questi ultimi anni.
Certo, la mia vita è fatta principalmente di questo. La mia attenzione di mamma è sempre molto presente. Mi sono poi diplomata in musicoterapia e ho cominciato a lavorare in diversi centri sia pubblici che privati accanto a pazienti con varie patologie, fisiche o psichiche. Sono entrata a contatto con aree di forte disagio. Questo mio lavoro mi fa sentire meno inutile. Dispongo di un mezzo meraviglioso che è la musica e questo mi permette di avvicinarmi meglio alle persone che soffrono.
Nel brano “Come mi penserai”, parli di una fede inafferrabile. In che senso?
Molte volte si perde l’equilibrio, perché per quanto si possa essere saldi, certe volte accadono cose che mettono in discussione la propria fede. Soprattutto davanti al dolore e alla sofferenza è difficile rimanere saldi. La fede è un sentimento forte e quindi può subire dei contraccolpi. Sento che la mia fede adesso è cosi, inafferrabile. È una fase transitoria, certo, ma di grandi dubbi e domande. La affronto in maniera critica, mi metto molto in discussione. Sono certa che sia un modo, alla fine, per rafforzarmi.
Sito ufficiale: www.graziadimichele.it
20 gennaio 2006