Ha bestemmiato: il processo di Gesù
di Andrea Lonardo
Perché fu ucciso Gesù? Chi ne decise la morte? Il passato recente ha abituato a rispondere a questi due quesiti importantissimi – ed ovviamente legati fra di loro – con affermazioni che poco hanno di storico. La preoccupazione sembra talvolta più quella di essere “politicamente corretti” e di inseguire immagini di Gesù à la page che quella di raggiungere la verità storica.
Una certa vulgata ha voluto imporre una visione degli eventi secondo la quale Gesù sarebbe stato condannato a morte perché da lui si temeva un sommovimento popolare e, conseguentemente, il vero responsabile della sua crocifissione sarebbe stato il potere romano, deputato a mantenere l’ordine e, quindi, chiaramente ostile ad innovatori pericolosi.
Questa interpretazione rimonta a quel filone di pensiero che, prescindendo dalle fonti, vuole vedere in Gesù primariamente un contestatore dello status quo stabilito dai potenti del tempo, un maestro di morale venuto a rivelare la falsità di ogni legge umana e l’arbitrarietà di ogni legge scritta ed, in particolare, a rivelare la falsità della classe dirigente del tempo che di quella legge si serviva per tutelare i propri privilegi. Il sinedrio avrebbe sì contribuito alla morte del Cristo, ma solo perché avrebbe sentito traballare il proprio potere a motivo di quel galileo che era sorto a contestarne la legittimità.
Peccato, però, che nessun dato storico autorizzi questa visione degli eventi. Nell’episodio del pagamento della tassa al Tempio, esemplarmente dipinta da Masaccio nella Cappella Brancacci a Firenze, Gesù invita, pur ritenendosene esente, a versare la tassa stabilita per il culto. Nella risposta a chi lo interroga sulla liceità del tributo a Cesare, Gesù, pur invitando a rendere culto innanzitutto a Dio, afferma che bisogna rendere a Cesare ciò che gli appartiene – ciò che è contrassegnato dalla sua effige – fondando una volta per sempre la laicità dello stato e la necessità per ogni credente di rispettarne l’autonomia.
Anche quando il Maestro critica coloro che si sono seduti sulla cattedra di Mosè, cioè gli scribi ed i farisei del suo tempo, egli non invita però a disprezzarli con facili irrisioni del tipo “predicano bene e razzolano male”, bensì afferma: «Fate tutto quello che dicono, ma non agite secondo le loro opere» (Mt 23,3).
Anche l’osservazione del comportamento di Pilato orienta nella stessa direzione. Egli, come suprema autorità politica nella Giudea di allora, non aveva certamente esercitato la sua autorità sempre in maniera esemplare, abusandone talvolta, come insegna Flavio Giuseppe e come attestano gli stessi vangeli (Lc 13,1-2 che parla di “quei galilei il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici”), ma pure, in occasione del processo, mostra in un primo momento di non avere niente da ridire contro quell’uomo. Doveva saper bene che nessun pericolo sarebbe mai venuto a lui ed al potere romano da quel Gesù e dai suoi discepoli.
Solo contro voglia, arrivò a “lavarsene le mani”, con espressione che da quel giorno diventerà memorabile ad indicare tutti coloro che vengono costretti ad interessarsi di una questione scottante e, pur avendo buone ragioni per prendere una decisione favorevole, preferiscono cedere alle pressioni.
Se è evidente, allora, che nessuno dei potenti del tempo aveva mai dovuto temere una diminuzione del proprio potere da quel “galileo”, perché Gesù fu condannato a morte e da chi?
La risposta è semplice e straordinariamente interessante. Gesù fu condannato per ragioni religiose, perché il suo insegnamento contravveniva alla Legge di Mosè. «Avete udito la bestemmia» (Mt 26,65), ripetono i vangeli. Il sinedrio determina la condanna di Gesù, perché non può accettare che egli si ponga sullo stesso piano di Dio: «vedrete il Figlio dell’uomo stare alla destra di Dio» (Mt 26,64).
Ciò che è evidente in occasione del processo non è meno evidente nel corso di tutta la vita del Maestro. Continua è l’accusa di sovvertire la Legge di Dio, di farsi più grande di Mosè, di rivendicare cioè il ruolo di vero legislatore divino. Il processo appare, da questo punto di vista, solo come l’apice di una tensione crescente, perfettamente distinguibile e costante nei suoi motivi.
Come è tornato recentemente a mostrare nel suo libro “Gesù di Nazaret” il Papa, nel dialogo intellettuale con il rabbino Jacob Neusner, Gesù non poteva essere seguito se non attribuendogli un ruolo che spettava fino ad allora solo a Dio. Solo Dio, infatti, può chiedere di essere seguito, senza se e senza ma, ma questo Maestro pretendeva che la sua sequela divenisse il criterio determinante della stessa comunione con Dio.
Proprio la condanna a morte di Gesù da parte del sinedrio mostra allora come l’establishment religioso del tempo si accorgesse bene che Gesù non si riteneva un rabbino come gli altri, bensì pretendeva una autorità divina che faceva gridare alla bestemmia. Ci si poteva convertire a lui ed accoglierlo come Figlio di Dio, oppure bisognava che egli fosse soppresso perché la sua vita violava l’unicità di Dio.
Pilato ed il potere romano entrano in gioco solo quando la morte è già decisa. Essendoci un regime di occupazione, il diritto romano vietava ai suoi sudditi di eseguire condanne a morte senza previa autorizzazione. La condanna a morte che era stata comminata a Gesù a motivo della legislazione religiosa del sinedrio allora vigente non poteva però essere eseguita dalle guardie dei sacerdoti, ma solamente dall’autorità romana.
E Pilato accondiscese alla condanna non perché temeva una rivolta da parte dei discepoli di Gesù, ma perché, una volta che il sinedrio ebbe sobillato la popolazione, il governatore dovette rendersi conto che la popolazione si sarebbe rivoltata se egli non lo avesse fatto crocifiggere. Il movente politico entra in seconda battuta ed in una direzione totalmente diversa da quella che abitualmente si ipotizza. Era dagli avversari di Gesù che Pilato doveva guardarsi se voleva mantenere la pace nei territori che doveva amministrare.
Le responsabilità storiche del sinedrio non debbono, però, far dimenticare il valore teologico di quanto avvenne in quei giorni: Cristo non morì solo per i peccati del sinedrio, ma perché prese su di sé i peccati di noi tutti. Come disse Giovanni Paolo II, nella sua storica visita alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986, «agli ebrei come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettive, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le sue opere”, gli ebrei come i cristiani».
Se è utile tornare a parlare di quella responsabilità non è assolutamente per infierire sul colpevole storico di quell’evento, bensì per affermare il fatto che Gesù rivendicava una vicinanza unica con il Padre.
Proprio per questo egli prese su di sé i peccati di noi tutti. Egli, coscientemente, dette compimento all’antica parola che Dio aveva pronunciato per mezzo della bocca del profeta Isaia: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5).
26 marzo 2010