La confessione non è un gioco
di Angelo Zema
L’operazione è subdola, e non nuova. Scrivere un articolo «cercando» una verità costruita a tavolino per spiattellarla ai lettori senza curarsi del contesto in cui ci si muove, della realtà che si affronta, come se tutto fosse un grande reality.
È il caso della pseudo-inchiesta proposta nei giorni scorsi da «L’Unità», in cui una giornalista, dicendosi «lesbica ma credente», si è recata in una decina di chiese di Roma, da parrocchie di periferia o del centro storico fino a basiliche come San Giovanni in Laterano e San Pietro, fingendo la confessione. «I ricatti della fede dietro la grata del confessionale», titola il presunto «scoop» lanciato in prima pagina, che comprende citazioni dei sacerdoti interpellati, alcuni anche identificabili dai dati forniti nell’articolo, e conclude parlando di un «viaggio penitente alla ricerca di uno spiraglio, una piccola crepa di speranza in cui introdursi per sparigliare le carte». Perché «nel segreto del confessionale, la Chiesa diffusa – quella fuori dalle gerarchie – si gioca una chance per rimanere piantata nella realtà».
Pare di capire che la chance per la Chiesa – quella «diffusa», viene precisato con la solita sottile distinzione capziosa – sia quella concessa soltanto da giornalisti come questi, che si ergono a giudici in ambiti che non conoscono e non rispettano, facendo della deontologia un pezzo di carta straccia. Com’è noto, il codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica prevede che il giornalista, nel raccogliere le notizie, renda note «la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa» e dispone che «eviti artifici e pressioni indebite».
L’articolo di cui parliamo è artificio allo stato puro, con il «mascheramento» della giornalista (non si tratta di una zona di guerra, dove l’inviato rischia la vita), che viola il sacramento della confessione. Certo, la Chiesa non obbliga nessuno a credere nella funzione salvifica dei sacramenti; non obbliga nessuno a considerare la Penitenza, come diceva Giovanni Paolo II, un «tribunale di misericordia». Ma è intollerabile la violazione dei sacramenti per inchieste pseudo-giornalistiche: comportamenti come questi offendono infatti la sensibilità del credente, di cui non si tiene minimamente conto.
Ciò che conta è l’effetto «scoop», che si persegue ad ogni costo. Già alcuni mesi fa, parlando di articoli «strillati e taroccati», avevamo parlato del «falso» che fa sempre più notizia. Anche il «falso» giornalista pretende di fare notizia, e merita, diciamo così, anche un richiamo in prima pagina. La ricerca della verità, perseguita nella verità, così come il rispetto delle persone, della dignità e del decoro professionale (e il rispetto per ciò che buona parte del Paese considera ancora sacro) non sono però principi da svendere. Almeno per noi. E sarebbe bene che continuassero a sostenere l’informazione, affinché non si riduca a giornalismo da buco della serratura.
25 aprile 2010