Senza Frontiere, la squadra multietnica
Un progetto di mediazione culturale attraverso il calcio: la formazione raccoglie giocatori di diverse nazionalità. E partecipa al Mundialido di Dario Amodeo
Con la presenza del pallone d’oro Gianni Rivera, lo scorso 16 maggio è stato dato il via all’XI edizione del Mundialido, torneo di calcio che vede sfidarsi le comunità migranti residenti nel territorio. Oltre a quindici rappresentative di nazioni diverse, anche quest’anno prenderà parte al torneo il Senza Frontiere, la squadra multietnica.
«L’idea era quella di prendere ragazzi stranieri che risiedono nel territorio, senza famiglia, senza amici e coinvolgerli in ciò che li fa sentire di più a casa: giocare a pallone», racconta Danilo Zennaro, presidente e allenatore del Senza Frontiere. Di giorno lavora in Vaticano alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e, nel tempo libero, veste i panni del tecnico sportivo. «Ero stufo di un’attività che avevo aperto come secondo lavoro e, appena saputo del progetto, me ne sono subito innamorato».
Nato nel 1998 ad opera di alcuni volontari della Comunità di Sant’Egidio, Senza Frontiere è un progetto di mediazione culturale attraverso il calcio. Dopo un paio di anni d’inattività, Zennaro ha ripreso in mano la squadra, fondando un’associazione sportiva nel 2003. «Offre la possibilità a chiunque voglia di giocare al calcio gratuitamente», sottolinea. Da allora la squadra si prende cura di rifugiati, immigrati, italiani e chiunque condivida la passione per questo sport.
«Sono tutti bei ricordi; capitano, talvolta, momenti difficili in campo ma poi finisce tutto lì», racconta Mustapha, algerino, veterano del Senza Frontiere, soprannominato “Nonno” dai compagni per via dei suoi quarantadue anni, quattordici dei quali trascorsi in Italia. «Questa squadra per molti ragazzi vuol dire tanto: è importante scaricare la fatica dopo una giornata di lavoro». E aggiunge: «Ti fa sentire più protetto sul piano morale e aiuta ad alleviare la nostalgia del proprio Paese. Qui ho imparato a conoscere altre culture; è una scoperta».
«Senza Frontiere ha un duplice obiettivo – ricorda Zennaro –, da un lato rappresenta per i ragazzi un’occasione per socializzare, dall’altro serve a farli conoscere ad altre persone. Spesso, infatti, siamo abituati ad avere un’immagine distante di loro. Un conto è vederli in televisione sbarcare a Lampedusa, un altro è conoscerli di persona». Ed è proprio dal punto di vista delle relazioni umane che, secondo il presidente dell’Associazione, si ottengono i risultati migliori: «Conoscere tanta gente proveniente da ogni parte del mondo, vedere ragazzi trovare lavoro, sposarsi e, in definitiva, inserirsi nella società. Queste, le più grandi soddisfazioni». Anche se non sempre tutto fila per il verso giusto: «Il difficile – ammette – è reperire fondi e trovare un interlocutore nelle istituzioni per dare continuità all’iniziativa».
In dieci anni centinaia di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo hanno indossato questa maglia. Alcune storie difficili, altre molto belle. Come quella di Hamed, egiziano, in Italia dal 2003 che, dopo due giorni di lavoro ininterrotti, trova ancora la forza per disputare un incontro e ricordare sorridendo «Non dormivo da quarantotto ore ma ci tenevo a giocare. Non mi reggevo in piedi eppure ho anche segnato un gol. Ed è stato bello».
20 maggio 2009