Tra passato e presente, la coerenza dei Nomadi

Il 20 aprile la band emiliana in concerto al Tendastrisce di Roma. Ne parla Beppe Carletti, tastierista e anima del gruppo di Concita De Simone
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Carta canta. Più che gli effetti speciali, dei Nomadi stupiscono i numeri: 43 anni di vita, 200 brani di repertorio, 140 concerti all’anno, 170 fans club, 29 album – con una media di uno all’anno (l’ultimo si intitola “Con me o contro di me” ed è uscito lo scorso 28 febbraio) -, e circa 150mila copie vendute per ogni nuova pubblicazione. Una delle formazioni più longeve e, soprattutto, più coerenti, del panorama musicale italiano. Lo hanno dimostrato anche all’ultimo Festival di Sanremo, seconda apparizione sul palco dell’Ariston per un gruppo che allo sfolgorio delle luci della tv preferisce i riflettori dei palazzetti dello sport. Per i Nomadi, dopo la partecipazione nel 1971 con “Non dimenticarti di me”, quando la voce del gruppo era l’indimenticabile Augusto Daolio (scomparso nell’ottobre 1992 ), si è trattato di un ritorno importante, spinti dalla voglia di mettersi in gara dopo 35 anni, senza temere il logorio del tempo, le melodie sentimental-sanremesi e i cantanti dai jeans a vita bassa. Risultato: la vittoria nella categoria “gruppi”. Incuranti di ogni moda e stile, hanno saputo conquistare, in questi 43 anni, un pubblico sempre più ampio che ancora oggi segue la band in ogni concerto e nelle numerose iniziative di beneficenza, in cui i Nomadi si dimostrano fedeli al binomio “musica e solidarietà”, per desideri morali e non per “esigenze di copione”. Gli inevitabili cambiamenti di formazione, per cause artistiche o naturali, non hanno scalfito lo spirito della band, che, dopo quattro decenni di storia della musica italiana, continua a lasciare segni tangibili della propria esperienza artistica. La formazione di oggi comprende, oltre al fondatore Beppe Carletti, il chitarrista Cico Falzone, il batterista Daniele Campani, il cantante Danilo Sacco, il bassista e cantante Massimo Veccchi e il polistrumentista Sergio Reggioli. Un gruppo che vive del rapporto diretto e complice con il suo popolo. Ci sono persone che, armate di striscioni e sacco a pelo, percorrono tanti chilometri per andarli a sentire, anche 30 volte in un anno. Nelle canzoni dei Nomadi, cantate in coro a questi concerti multigenerazionali, non c’è solo la storia del gruppo e del periodo in cui sono state scritte, ma anche quella della gente che li segue costantemente. Il prossimo 20 aprile saranno in concerto a Roma al Teatro Tendastrisce (via Giorgio Perlasca, 69). Ne parla a Romasette.it Beppe Carletti, tastierista e anima del gruppo, vero e proprio trait d’union tra passato e presente.

“Con me o contro di me”: com’è questo nuovo album?
È il nostro nuovo lavoro, un cd “nomade” al 100%. Mi piace dire che ci riporta un po’ agli inizi degli anni Novanta. Raccontiamo storie e stavolta lo facciamo con più dolcezza rispetto magari a “Con rabbia e con amore”. È il cd della terza via, cioè tra il bianco e il nero c’è anche il grigio. Come diciamo nell’omonima canzone, il mondo non è fatto solo d’estremi, né tanto meno d’etichette. Perché è necessario per forza schierarsi da una parte o dall’altra? La verità, forse, sta nel mezzo: nel dialogo e nella tolleranza. Il titolo è accattivante, ma in realtà è proprio il contrario, cioè è una canzone sullo stare insieme ed essere d’accordo.

Che effetto vi fa essere “scaricati dai telefonini”?
È una “roba” strana, per davvero. Però se questo è il modo oggi per arrivare di più a farci ascoltare, perché no? Poi, certo, se uno è affezionato si compra il disco, però ci interessa anche far ascoltare le canzoni.

L’album sui apre con il brano di Sanremo “Dove si va”, coraggioso rispetto agli standard del festival.
Io credo che il nostro successo al festival sia dovuto al fatto che era l’unica canzone rock in gara e il rock ha ancora tantissimi fans. Anche la nostra poi, se vogliamo, è una canzone d’amore, non intesa, come nella maggior parte dei casi, tra uomo e donna, ma tra padre e figlio. Infatti è la lettera di un reporter di guerra scritta a un figlio lontano, con la paura, l’impossibilità di descrivere la follia che sta attorno a lui ogni giorno e ogni notte. È un brano che parla della guerra che si combatte ogni giorno, ma con speranza. La parola guerra sta solo all’inizio della canzone, quando raccontiamo che «vivere è come tirare a sorte»: non lo facciamo con rassegnazione ma con l’intenzione di spronare chi ci ascolta a dare una svolta alla propria vita.

Attraverso le vostre canzoni fate sempre riflettere in musica. E in questo album ce ne sono molti esempi, come “Non è un sogno”.
Qui diciamo che troppe volte ci s’interroga su cosa si potrebbe veramente fare in concreto per aiutare chi sta peggio di noi e spesso ci si perde in un mare di se, di ma e di perché cercando di omettere il problema dicendo “in fondo non è colpa mia”, quando basterebbe mettersi in gioco ed essere disposti a perdere un minimo delle nostre comodità per risolvere una buona parte dei problemi che subiscono vari paesi del mondo. Amo dire che gruppi come noi, che cantano la gente, sono un po’ dei menestrelli e devono raccontare quello che succede. Questo è sempre stato lo stile dei Nomadi e forse è per questo che il pubblico continua a seguirci.

Prendiamo in prestito un’altra canzone del nuovo album, “Ancora non so”, per parlare del senso di incertezza che attanaglia tanti giovani oggi. Voi dite che l’incertezza della vita porta l’uomo a ricercare il senso e la fiducia nelle piccole cose , ma per i giovani oggi sembra difficile.
Dico ai giovani che bisogna cambiare. Ma l’intenzione deve partire da loro stessi. Non è sempre colpa della società. Bisogna cominciare da se stessi, credere di più nelle proprie capacità e possibilità. Pensiamo alle recenti rivolte dei giovani francesi per la legge sul licenziamento. Si sono ribellati, forse troppo violentemente, e questo, certo, è sbagliato, ma almeno hanno avuto il coraggio di esprimersi perché si trattava del loro futuro. Non ci sono scuse e non è giusto continuare a giustificare i giovani di oggi.

Evidentemente i giovani vi stanno a cuore. Ne parlate anche in “Status symbol”.
Anche questa è una canzone di denuncia sociale, anzi, anche più forte. È una vera e propria presa di posizione nei confronti di chi determina mode giovanili negative, addossando la colpa agli stessi giovani, nascondendosi dietro al “libero arbitrio” del possono scegliere, per poi emarginarli se non seguono il “mucchio”. Invitiamo a diffidare degli “Imperatori dello specchio”, convinti che i veri valori per cui valga la pena vivere la propria gioventù non sono l’esibizionismo, l’arroganza o lo sballo chimico bensì la condivisione dell’amicizia e dell’amore. Vedo in giro troppo egoismo, questo sì, è colpa della società, ma non possiamo aspettare che le cose degenerino da sole, dobbiamo fare qualcosa e i giovani dovrebbero preoccuparsi di questo.

Lo canterete anche al Tendastrisce?
Certo, ci saranno tutte le canzoni nuove e poi le altre che piacciono sempre. Sarà, come sempre, un concerto legato a un’iniziativa umanitaria. Pensiamo che sensibilizzare sia un nostro dovere e la gente ci ascolta non solo quando cantiamo, ma anche quando parliamo.

Beppe, siamo a Pasqua. Voi nel 1967 avete cantato la celebre canzone nella quale Dio muore e poi risorge. Qual è il tuo augurio per far risorgere Cristo oggi?
Siamo noi che dobbiamo farlo risorgere. Noi, in Dio è morto, cantiamo «In ciò che noi crediamo Dio è risorto, in ciò che noi vogliamo Dio è risorto, nel mondo che faremo Dio è risorto!». Deve risorgere prima dentro di noi e poi, attraverso di noi, negli altri. È un po’ il discorso che facevamo prima. Non dobbiamo aspettare le campane per dire che Dio è risorto: cioè, non dobbiamo aspettare gli altri. Non vorrei peccare di poca umiltà, ma, in fondo, è vero che i Nomadi sono coerenti!

12 aprile 2006

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