Gesù di Nazaret, nato a Betlemme
di Andrea Lonardo
«San Cirillo fece cominciare il suo ciclo dall’anno 153mo di Diocleziano e lo fece terminare nell’anno 247mo. Noi invece, pur incominciando dall’anno 248mo dello stesso tiranno – piuttosto che principe –, non abbiamo voluto collegare i nostri calcoli alla memoria di un uomo empio e persecutore. Abbiamo scelto invece di contrassegnare la successione degli anni a partire dall’incarnazione di Gesù Cristo nostro Signore, affinché fosse a noi più evidente l’esordio della nostra speranza e affinché risplendesse la sorgente dell’umano riscatto, e cioè la passione del Redentore».
Così scrive Dionigi il piccolo, rispondendo alla richiesta di Papa Giovanni I che lo aveva incaricato di fissare le date della celebrazione della Pasqua per 100 anni a partire dal 532 d.C. Comincia così il computo degli anni a partire dalla nascita di Cristo, che si imporrà nei successivi calendari.
Al tempo di Dionigi, monaco scita stabilitosi a Roma, gli anni erano calcolati a partire dall’ascesa al trono di Diocleziano (il nostro anno 284 d.C.). Diocleziano, però, era stato il grande nemico dei cristiani, dando origine all’ultima – e forse più grande – persecuzione prima di Costantino, nell’anno 303. Gli scrittori cristiani avevano sì mantenuto, fino a Dionigi, quel modo di computare gli anni, ma affermavano di datarli non a partire dall’ascesa al trono dell’antico sovrano, bensì a cominciare dall’“era dei martiri” che egli aveva fatto uccidere.
Dionigi decise, nel redigere il suo computo delle Pasqua a venire, di computarle, invece, a partire dalla nascita di Cristo, “affinché risplendesse la sorgente dell’umano riscatto”. Nel calcolare quella data, l’anno della nascita di Cristo, il monaco scita, che non possedeva le fonti che abbiamo oggi a disposizione, commise un errore che gli storici moderni considerano oscillante fra i 4 e gli 8 anni. Infatti, è oggi certo che Erode il Grande morì nel 4 a.C. e che, conseguentemente, Gesù deve essere nato prima di quella data, fra l’8 ed il 4 a.C.
I vangeli, che non forniscono la data precisa dell’evento, sottolineano, però, le coordinate storiche della nascita, collegandola con l’impero di Augusto e la sua volontà di “censire” tutta la popolazione dell’impero. Il riferimento non ha semplicemente l’intento di mostrare che Colui che governa dal cielo il mondo porta a compimento disegni ben più grandi di quelli dei potenti della terra che addirittura ignorano il realizzarsi del piano di Dio. La punta di diamante dell’annuncio evangelico è posta piuttosto sulla realtà storica di quella nascita, avvenuta in un luogo ed in una precisa data e non eternamente presente o ciclicamente ricorrente come negli antichi miti.
Proprio contro questa fattualità storica, che per la prima volta lega l’eternità di Dio alla storia umana tramite l’incarnazione, contro questa determinatezza cronologica e geografica, reagiranno Marcione e gli gnostici nel II secolo, incapaci di comprendere come Dio potesse prendere carne nella storia umana.
È Tertulliano a ricordare le parole di Marcione, vissuto a Roma ed espulso dalla comunità romana a motivo delle sue tesi, che aveva affermato: «Toglimi di mezzo questi censimenti di Cesare che ci disturbano sempre, questi alberghi disagevoli, questi panni sporchi, queste mangiatoie non certo confortevoli [dura praesepia”>: se la schiera degli angeli ha intenzione di onorare il suo Dio di notte, faccia pure! I pastori farebbero meglio a badare alle pecore, e i Magi si risparmino pure la fatica del lungo viaggio: possono tenersi il loro oro!».
Così gli gnostici, con alla testa Valentino, il più grande di loro, anch’egli vissuto a Roma ben prima che i vangeli gnostici venissero poi tradotti dal greco in copto, predicava che Gesù era solamente Dio e non uomo, poiché la divinità non poteva mischiarsi con la povertà della materia.
Gli scritti neotestamentari, decenni prima che si giungesse al vertice del Prologo di Giovanni, avevano compreso bene l’inaudito che si era realizzato in quella nascita reale e non mitica, come scrive l’inno della Lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi:
«Cristo Gesù,
pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini» (Fil 2,5-7).
L’inno, che è pre-paolino, richiama al fatto che la kenosis di Cristo, la sua umiliazione fino all’incarnazione ed alla morte, è tale proprio perché egli “era nella condizione di Dio”. È la sua “altezza” primigenia che conferisce significato al suo abbassamento che, altrimenti, non sarebbe tale.
I vangeli di Matteo e Luca pongono concordemente la nascita di Gesù a Betlemme. Il doppio riferimento è significativo poiché i due evangelisti non si conoscono e scrivono indipendentemente l’uno dall’altro, segno che il luogo della nascita era pacificamente attestato nelle comunità primitive.
Alcuni studi recenti hanno voluto mettere in dubbio l’ubicazione betlemmita a partire dalle affermazioni di Giovanni che, nel capitolo settimo, riporta una disputa di Gesù con alcuni suoi avversari che domandavano: «Il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?» (Gv 7,41-42).
Da una analisi più attenta dell’intero capitolo, però, emerge l’ironia dell’evangelista che vuole mostrare come le persone in questione non conoscano minimamente la persona di Gesù, la sua realtà ed il suo mistero. Infatti, poco prima, gli stessi avevano domandato: «Costui sappiamo di dov’è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia» (Gv 7,27). In questo versetto è evidente che gli abitanti di Gerusalemme pensano di conoscere Gesù, mentre non sanno da dove venga, cioè, precisamente, da Dio stesso.
A partire da queste considerazioni, il grande esegeta giovanneo Raymond Brown conclude: «Noi pensiamo che l’evangelista conoscesse perfettamente bene la tradizione che Gesù era nato a Betlemme» (Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, con prefazione del cardinal Carlo Maria Martini).
25 settembre 2009