Il “classico” secondo Settis

La storia della codificazione del termine in un libro che ne racconta le non poche ambiguità e condizionamenti ideologici di Marco Testi

Quando leggiamo di un testo, di un quadro o di un autore classico sappiamo che cosa ha in testa chi ha scritto quella parola? A cosa ha voluto richiamarsi definendo “classico” qualcosa o qualcuno? Quali i suoi modelli di riferimento? A queste domande cerca di dare risposte Salvatore Settis, esperto di Storia dell’arte e archeologia, con «Futuro del “classico”». Il libro presenta la storia della codificazione del termine, per cui possiamo coglierne sfumature e senso del limite, poiché esso ingloba necessariamente il punto di vista di chi lo adotta. Per Vasari “classica” era l’arte romana; lo stesso dicasi per Piranesi, con in più la rivendicazione della non-dipendenza dai Greci, perché essa avrebbe radici autoctone, quelle degli Etruschi; un po’ ciò che avverrà, sul versante letterario, con Vincenzo Cuoco e il suo romanzo «Platone in Italia», dove si teorizzava una antichissima cultura italica addirittura prima di quella greca. Per Winckelmann non c’erano dubbi: «L’unica arte classica era quella greca del V secolo a. C.». Anche la riscoperta ai giorni nostri del Gran Tour come fenomeno filo-ellenizzante subisce qualche aggiustamento alla lettura del libro di Settis, dove si scopre che in Inghilterra la «Society of Dilettanti» (in italiano nell’originale) dovette insistere affinché nel ’700 il giro iniziatico fosse esteso dall’Italia alla Grecia. E il concetto di “rinascimento”, legato a quello di classicità, può essere sminuzzato in quello carolingio, ottoniano, dell’epoca dei comuni, o quello legato ai Paleologi a Bisanzio, solo per citare i più famosi. Entra in crisi proprio il concetto di nascita-crescita-fine di una civiltà, a favore di uno schema diverso, basato su una serie di ritorni o di riprese di elementi precedenti senza che questi siano visti come elementi di ri-nascita alla fine di un ciclo storico. Oltre tutto, il concetto di “classico”, usato in senso vicino al nostro per la prima volta da Aulo Gellio nelle Notti attiche, rientrò in uso tra ’500 e ’600, e solo nell’800 si stabilizzò in modo definitivo come riferimento all’antichità greco-romana. Ognuno ha il suo classico, insomma, ma il merito di Settis è di aver ripercorso tutto il cammino del termine, con le sue ambiguità e condizionamenti ideologici.

«Futuro del “classico”», Salvatore Settis, Einaudi, 7 euro

18 marzo 2006

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