“La trappola”, intreccio di «disvalori»

La novella di Pirandello rivive in una trama di battute pregnanti, in cui Lavia estrae la materia nel personaggio centrale dell’Uomo immerso in un labirinto di Toni Colotta

Gabriele Lavia ha un debole per la forma letteraria del racconto, che possa egli stesso trasformare in materia teatrale, da allestire per la scena da regista e primattore. Ultimo suo exploit, da direttore artistico del Teatro Stabile capitolino, è “La trappola”, riversamento dell’omonima novella di Luigi Pirandello. Spettacolo andato in scena nelle scorse settimane all’Argentina ma che probabilmente sarà riproposto dalla produzione. Nel 1999 ottenne ottima accoglienza la riduzione di un racconto, “Una donna mite”, ricavata da Dostoevskij.

Chi ne fu spettatore ricorderà quanto suggestivo fosse il senso del tragico nella solitudine. Condizione analoga ha affrontato ora col nuovo spettacolo, affrontando il testo narrativo contenuto nella raccolta delle “Novelle per un anno”. In quella prosa, scritta nel 1912, si può riscontrare molto dello specifico teatrale maturato nelle posteriori opere drammaturgiche. A partire da quell’incipit che afferra subito il lettore e che Lavia riporta: «No, no, come rassegnarmi? E perché? Se avessi qualche dovere verso altri, forse sì. Ma non ne ho».

È ciò che Giovanni Macchia, in un suo famoso saggio, considerava tipico di molte opere dello scrittore siciliano: essere all’inizio i fatti già avvenuti, «con moventi oscuri». Riversando ora la narrazione in una trama di pregnanti battute sceniche, Lavia elabora ed estrae la materia preteatrale incarnata nel personaggio centrale dell’Uomo, innominato, immerso visivamente nella «trappola» di un claustrofobico labirinto di mobilia accumulata senz’ordine, fra libri polverosi ormai inutilizzati.

L’uomo racconta, sgrana i fatti a noi, spettatori e complici. Con lui l’altro intrappolato, il padre inabile per una paralisi, che si esprime solo piangendo, zittito dal figlio; e il personaggio della vicina di casa che irrompe offrendosi apparentemente di assistere il vecchio ma spinta da ben diverso scopo, di trappola sessuale. L’epilogo è tragico. Ed ecco emergere dall’intrico i «disvalori» contro i quali l’Uomo si scaglia, quindi la sua misoginia, la paura di morire cristallizzato in una forma: insomma la «metafisica» di Pirandello.

Giustamente Gabriele Lavia considera lo scrittore agrigentino grande quanto i tragici greci o Shakespeare, e, da attore, ne ha fatto la sua seconda pelle, esprimendone qui efficacemente l’umorismo come «sentimento del contrario», il labirinto in cui si aggira l’anima senza poterne uscire, tra spunti realistici e verità astratta. Con una recitazione allucinata che conserva della novella la facondia torrenziale. A Roma lo spettacolo recava una insolita dedica del riduttore: al numeroso pubblico che nei «Teatri di cintura», situati in zone periferiche di depressione sociale, segue l’attività dello Stabile.

29 aprile 2013

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