L’editoriale: Uomo di preghiera e dialogo
Il ricordo di don Andrea e della sua ultima visita alla redazione di Roma sette, lo scorso 23 gennaio di Angelo Zema
«Se sono arrivato troppo presto, ditelo; vado in cappella a pregare». Quando venne da noi, all’appuntamento per raccontare la sua esperienza in Turchia, don Andrea Santoro aveva esordito così. Era arrivato qui, al secondo piano del palazzo del Vicariato, per il colloquio con il nostro Claudio Tanturri in vista dell’articolo che Roma sette avrebbe poi proposto domenica 29 gennaio. Era venuto a trovarci qualche giorno prima, esprimendo il desiderio di far conoscere alla comunità ecclesiale della diocesi la sua presenza a Trabzon (Trebisonda), sul Mar Nero, come segno di testimonianza della Chiesa di Roma in Turchia.
Parlava con entusiasmo e passione, passione per l’uomo e per Cristo. La passione che lo portò sei anni fa a scegliere la Turchia: la definiva «finestra per il Medio Oriente» per quella che riteneva fosse la sua “vocazione” originaria in un’area così delicata. Tanto che intitolò così il gruppo che intendeva favorire il rispetto, la comunione e la pace tra le Chiese sorelle cristiane e l’ebraismo, il cristiano e l’islamismo. Con la collaborazione di alcuni laici, in occasione dei suoi rientri in Italia, organizzava ritiri e incontri, anche nelle due comunità che aveva guidato a Roma, Gesù di Nazareth al Collatino, e Santi Fabiano e Venanzio all’Appio Tuscolano, con l’obiettivo di condurre i fedeli alla scoperta di un territorio e del suo contesto culturale, sociale e religioso. Nel suo ultimo soggiorno romano, altre comunità parrocchiali e realtà ecclesiali della diocesi avevano potuto beneficiare della sua preziosa testimonianza nei confronti di quel mondo, di quella «finestra».
Don Andrea amava il suo sacerdozio, la Chiesa, il prossimo. Sapeva sempre misurarsi con realismo di fronte alle situazioni che viveva nel suo impegno di prete “fidei donum”, “dono della fede”. Così da testimoniare silenziosamente la sua presenza in Turchia nel pieno rispetto delle leggi locali, come ha ricordato ieri il cardinale Ruini commentando il tragico assassinio del sacerdote. Era disponibile ad incontrare chiunque, e così, nei locali della piccola chiesa a lui affidata, si recavano anche ortodossi e musulmani; e persone di ogni condizione sociale, anche i più emarginati dalla società. È stato la guida di tanti pellegrini italiani che andavano nell’Asia Minore per tornare alle radici della fede, e in lui hanno sperimentato la spiritualità che proclamava l’essenzialità e la radicalità del messaggio evangelico.
Qui in redazione conserviamo il calendario multiculturale da lui preparato, piccolo e concreto segno di dialogo del suo impegno. E gli appunti della conversazione rimasti sul block notes. E l’immagine della stretta di mano per il saluto e l’augurio di buon viaggio verso Trabzon. L’ultimo.
È stato ucciso di domenica, nel giorno del Signore risorto. Subito dopo la celebrazione della Messa. Mentre nella seconda lettura della liturgia ascoltavamo e proclamavamo la parola di San Paolo. Di quel Paolo nato a Tarso, in Cilicia, nel territorio dell’attuale Turchia, a poco più di cento chilometri dalla località dove don Andrea aveva iniziato la sua testimonianza in quel Paese. «La testimonianza»: come avevamo intitolato quell’elemento grafico che chiamiamo “bandierina”, sopra il titolo dell’articolo a lui dedicato. E fino in fondo lo è stata, una testimonianza. L’offerta del proprio corpo – come esortava Paolo nella Lettera ai Romani – «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio».
6 febbraio 2006