Paul Ricoeur, vita e morte tra filosofia e cinema
Al pensatore francese (nella foto) dedicato il convegno promosso dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dall’Università di Roma Tre di Massimo Giraldi
Un convegno internazionale di studi su “Il filosofo e la rappresentazione cinematografica” si è svolto per l’intera giornata di ieri (20 maggio) al cinema Trevi per iniziativa della Fondazione Ente dello Spettacolo e dell’Università degli Sudi Roma Tre. Accanto al titolo una importante specificazione: “Vivo fino alla morte: lutto, gaiezza, immagine a proposito di Paul Ricoeur”.
È stato intorno a questa figura centrale della filosofia europea del secolo scorso che ha preso il via il dibattito. Paul Ricoeur, nato a Valence (Francia) il 27 febbraio 1913 e morto vicino a Parigi il 20 maggio 2005, ha segnato con i propri studi alcune tappe notevoli negli studi speculativi degli ultimi decenni. Docente di filosofia morale all’università di Strasburgo nell’immediato dopoguerra, poi all’università di Nanterre (di cui è stato anche rettore) dal 1966 al 1970. Insignito del premio Hegel a Stoccarda nel 1978, è stato direttore del centro di ricerche fenomenologiche ed ermeneutiche. Tra le sue pubblicazioni: “Filosofia della volontà” (1950); “Storia e verità” (1955); “Dell’interpretazione. Saggio su Freud” (1965); “La metafora viva” (1975); “Dal testo all’azione” (1986).
L’occasione concreta per tornare a parlare del filosofo francese è stata l’uscita di un libro postumo dal titolo “Vivo fino alla morte” seguito da frammenti, un «prezioso, piccolo scrittoofferto gli elementi per inquadrare», come lo definisce nella introduzione Daniella Iannotta, che di Ricoeur è non solo traduttrice ma anche a lungo amica, ossia “vicina” nell’ottica di condivisione di orizzonti di riflessioni mai statici ma sempre in grado di rinnovarsi. Il libro raccoglie testi rimasti sparsi. Uno è stato ritrovato dentro una cartellina di cartoncino intitolata “Fino alla morte. Del lutto e della gaiezza.p.r.”.
E qui ci sono i termini, all’apparenza opposti, intorno ai quali hanno ruotato i molti interventi. Il punto di partenza è la distanza che Ricoeur prendeva dall’idea di Heidegger dell’«essere per la morte» che in lui diventa ‘essere fino alla morte’. Aggiungendo: «Io non debbo trattarmi come il morto di domani, per tutto il tempo che sono in vita. Riprendo qui (…) la speranza, nell’istante della morte, di uno squarciamento dei veli che dissimulano il fondamentale nascosto sotto le rivelazioni storiche. Proietto così non un dopo-la-morte ma un morire che sia un’ultima affermazione della vita. L’esperienza mia di un fine della vita si nutre di quest’ auspicio profondo di fare dell’atto del morire un atto di vita. Quest’auspicio lo estendo alla mortalità stessa, come un morire che resta interno alla vita. Così la mortalità stessa deve essere pensata sub specie vitae e non sub specie mortis (…)».
Si tratta, come si capisce da questa breve, intensa citazione, di un approccio svincolato, irrequieto, anche vitalistico che non vuole rinnegare il momento della morte ma affrontarlo, costruendo una sorta di “apprendistato del morire”, accompagnato, appunto da lutto e gaiezza. Per moltissimi intellettuali del Novecento, questo approccio ai temi ultimi dell’esistenza si è trovato a fare i conti con una presenza che i loro predecessori non avevano trovato. Il cinema, che ben presto si è strutturato come un territorio nel quale la possibilità di far convivere passato, presente e futuro ha costretto a rivedere i contorni dell’approccio al binomio verità/falsità, a capire come la “visione” del rapporto vita/morte potesse prendere forma dentro un fotogramma impresso su pellicola.
Alcune relazioni, perciò (di Gianluca Arnone, di Valerio Sammarco, di Tomaso Subini) hanno affrontato il tema del cinema e la vita oltre il visibile con riferimenti ad autori di ieri e di oggi (Pisolini, Eastwood, Schnabel). E in parallelo alcuni docenti universitari (lo spagnolo Villaverde, Ruggenini dell’università di Venezia…) hanno gettato sguardi attenti, affettuosi ma non compiacenti sulle ampie suggestioni del “sistema” di Ricoeur, sulla sua configurazione immaginaria della morte. Da ricordare è l’intervento di Catherine Goldenstein, oggi direttrice degli archivi del Fonds Ricoeur. Dario Edoardo Viganò, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, ha offerto gli elementi per inquadrare l’iniziativa in quei momenti di incontro tra il cinema e le altre discipline importanti per creare una sapere più consapevole e una conoscenza senza distinzioni settoriali. E su questa linea continua tra immagine, filosofia, pittura, religione si può dire che il convegno non si è chiuso ma ha invitato a proseguire riflessioni e confronti in altre sedi.
21 maggio 2009