Quei trent’anni misteriosi
di Andrea Lonardo
Il Vangelo di Marco ricorda che Gesù esercitò il mestiere di tektòn. Il termine greco designa non tanto il lavoro di falegname, ma piuttosto quello di carpentiere, manovale addetto alle costruzioni. La moderna espressione “architetto” deriva proprio da quell’antico vocabolo: archi-tektòn che, scomposto alla lettera, vale il “grande carpentiere”, il “capo dei carpentieri”, cioè colui che non solo realizza materialmente un edificio, ma presiede a tale edificazione.
I paralleli sinottici si limitano a dire che Gesù era figlio di un tektòn e solo Marco, attentissimo a tanti particolari umani della vita del Cristo – è l’unico, ad esempio, a ricordare il cuscino sul quale Gesù dormiva prima di sedare la tempesta –, ricorda che quel mestiere fu esercitato anche dal maestro.
Come Luca, solo fra gli evangelisti, si preoccupa di conservare memoria della crescita graduale del bambino e dell’adolescente Gesù, così solo Marco 6,3 ci restituisce, in quel rapido accenno, la concretezza del lavoro che occupò Gesù negli anni della sua vita nascosta. È il mistero insondabile dell’incarnazione. Dio manifesta il suo amore per la realtà uscita dalle sue mani al momento della creazione anche perché sceglie di continuare ad utilizzarla per il bene, nel lavoro del Figlio, a conferma che essa serve ad un disegno di salvezza.
Il lavoro nascosto di Gesù è così straordinario e semplice complemento alle enormi affermazioni con le quali ha cambiato il corso della storia del mondo, come il “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Proprio il lavoro di Gesù conferisce estrema dignità all’uomo che realizza quotidianamente la propria opera, nelle diverse professioni alle quali la vita lo chiama.
E come dell’occupazione quotidiana di ogni lavoratore umano non si conserva traccia negli annali della grande storia, così è avvenuto di quella di Gesù. Non sapremo mai, come qualcuno ha voluto recentemente suggerire, se egli si sia recato qualche volta a lavorare all’edificazione delle case dell’antica Sepphoris, vicino Nazareth, che in quegli anni conosceva un considerevole sviluppo edilizio, o piuttosto se sia più semplicemente rimasto nella piccola cittadina della propria famiglia, senza allontanarsi da essa prima dell’inizio della vita pubblica.
È da escludere, invece, una sua partecipazione alla vita della coeva comunità di Qumran. Antitetica al messaggio evangelico, infatti, si presenta la proposta che la comunità degli esseni, in riva al Mar Morto, proponeva ai suoi adepti.
Leggiamo nel cosiddetto Documento di Damasco, uno dei testi che ci riportano all’interpretazione delle Scritture che veniva fornita a Qumran: «Nessuno aiuti a partorire un animale, il giorno del sabato. E se cade in un pozzo o in una fossa non lo si tiri su, di sabato. Nessuno profani il sabato per ricchezza o guadagno, di sabato… E ogni uomo vivo che cade in un luogo di acqua o in un luogo, nessuno lo tiri su con una scala, una corda o un utensile. Nessuno offra nulla sull’altare di sabato, tranne il sacrificio del sabato, perché così è scritto: soltanto le vostre offerte del sabato».
La setta degli esseni si opponeva al giudaismo del Tempio ed a quello farisaico perché riteneva che entrambi si fossero allontanati da un’osservanza rigorosa dei precetti legali: il gruppo di Qumran affermava, invece, che essi fossero da custodire secondo una interpretazione rigorosissima, più rigida di quella farisaica.
Giuseppe Flavio è fonte ulteriore che conferma questa obbedienza estrema alla Torah propugnata dagli esseni. È famoso un suo passaggio che ricorda come essi, a partire dall’affermazione della Scrittura che dichiarava impuro l’uomo che aveva appena compiuto le proprie “attività espletorie”, giungessero a richiedere una immediata purificazione: «Con più rigore di tutti gli altri giudei si astengono dal lavoro nel settimo giorno; non solo infatti si preparano da mangiare il giorno prima, per non accendere il fuoco quel giorno, ma non ardiscono neppure di muovere un arnese né di andare di corpo. Invece, negli altri giorni, scavano una buca della profondità di un piede con la zappetta – a questa infatti assomiglia la piccola scure che viene consegnata da loro ai neofiti -, e avvolgendosi nel mantello, per non offendere i raggi di Dio, vi si siedono sopra. Poi gettano nella buca la terra scavata, e ciò fanno scegliendo i luoghi più solitari. E sebbene l’espulsione degli escrementi sia un fatto naturale, la regola impone di lavarsi subito dopo come per purificarsi da una contaminazione».
A Qumran si proponeva, inoltre, l’attesa di un Messia che avrebbe dato avvio ad una guerra contro i non credenti, come attesta il Rotolo della guerra. I figli della luce sarebbero scesi in campo, al suo seguito, ed avrebbero finalmente sconfitto i figli delle tenebre. Questa visione si contrappone radicalmente a quella che sarà proposta dal crocifisso.
Ne è prova proprio il famoso frammento 4Q285 – il primo numero della sigla indica, come d’abitudine in materia, il numero della grotta nella quale il frammento è stato ritrovato ed il numero che segue la Q di Qumran la numerazione del frammento in questione – nel quale a torto uno studioso aveva proposto di leggere, alla quarta riga, la forma verbale “essi hanno messo a morte”, sostenendo che vi si dovesse intravedere una prefigurazione qumranica della fine ingloriosa del messia.
In realtà, una corretta vocalizzazione del testo, ha portato a concludere che quel frammento ha ben altro tenore: 4Q285 suggerisce che sarà piuttosto il messia a “mettere a morte l’empio”. Gli altri frammenti del manoscritto segnalano, infatti, che il testo è un commento ad Is 11, dove si dice, al v. 4, che il Messia ucciderà l’empio. L’“atteso messia” di Qumran sarà, quindi, un “maestro di giustizia” guerriero che sterminerà non solo i pagani, ma gli stessi ebrei inadempienti alla Legge.
Mentre la comunità di Qumran attendeva lo scatenarsi della guerra finale che avrebbe visto il trionfo dei figli della luce, Gesù si preparava, nel nascondimento e nel lavoro, alla propria missione pubblica.
Nella storia della santità cristiana è stato Charles de Foucauld a riproporre nella propria vita ed a ripresentare agli uomini la bellezza di questa vita nascosta del Cristo.
Scriveva, nei suoi commenti alla vita di Gesù: «Egli ci ha dato l’esempio: vita nascosta (Nazareth), vita solitaria (i quaranta giorni di deserto), vita pubblica (i tre anni di predicazione). Queste tre vite sono ugualmente perfette, poiché Gesù, sempre ugualmente perfetto in ogni periodo della sua vita, sempre Dio, le ha condotte tutte e tre. Esse sono ugualmente perfette in se stesse, ma per noi non è ugualmente perfetto l’abbracciare l’una o l’altra; è indispensabile abbracciare quella in cui Dio ci vuole».
23 ottobre 2009