Tutto il “Suono” di Eugenio Finardi, esploratore di linguaggi musicali
Intervista al cantautore di “Musica ribelle” ed “Extraterrestre”, che sarà in concerto al “The Place” mercoledì 11 febbraio di Concita De Simone
In principio c’era il rock. Erano i primi anni Settanta e l’allora poco più che ventenne Eugenio Finardi, nato a Milano ma con mezzo cuore in Florida, Paese di origine della madre, si affacciava al mondo discografico come musicista e interprete. La sua “Musica ribelle”, una sorta di manifesto poetico, arriverà nel 1976 e da lì una serie di successi che confermarono il suo talento autorale sfociato in testi sempre più impegnati.
Dopo una svolta intimista – che ci racconterà nell’intervista che segue – e una trentina di album, Eugenio Finardi si presenta oggi come un artista capace di reinventarsi in ogni nuovo progetto, una sorta di esploratore della musica. Come nel recente “Suono”, dvd prodotto dalla Raiser con l’opera teatrale nata dal precedente “Uomo Tour”, il libretto con il testo integrale dello spettacolo e il cd delle canzoni live, ovvero gli «appunti teatrali, e contrappunti» come li definisce l’autore.
Un esperimento di teatro canzone, per raccontare storie – a tratti autobiografiche – attraverso musica, teatro, immagini e gesti e interpretare le sue canzoni, quelle famose e altre meno note ma non meno significative. Lo spettacolo arriva dopo il grande successo che è valso a Finardi il Premio Tenco 2008 nella categoria miglior disco di interprete de “Il cantante al microfono” (Velut Luna/Egea Recors), disco omaggio al dissidente russo Vladimir Vysotsky.
Il Finardi esploratore di linguaggi musicali – dal blues, al fado, alla classica contemporanea – arriva a misurarsi dunque, anche con la performance teatrale per sviluppare i complessi temi dell’identità, della trascendenza, della ribellione. Il tutto legato dal filo della ricerca spirituale che lo ha sempre accompagnato fin da bambino, come rivela lui stesso nella tappa promozionale romana che precede il concerto che terrà al “The palce”, mercoledì 11 febbraio per la rassegna “Roma di Amilcare” organizzata dal Club Tenco e dedicata alla musica d’autore.
Le tue biografie esordiscono ovunque con la qualifica di cantautore, ma tu ti sei definito sempre un anti cantautore…
Nel senso che non sono esattamente un poeta in musica, non faccio parte della scuola francese, piuttosto di quella inglese. Mi sento vicino alla canzone di protesta americana, al folk. Più Demetrio Stratos che non i classici cantautori italiani. Anch’io negli anni Settanta sentii il desiderio di intervenire nel sociale, di essere funzionale ai fatti che accadevano e feci delle canzoni di protesta, pensando che poi sarei tornato al rock. Invece quelle canzoni (dell’album “Non gettate alcun oggetto dai finestrini” del 1975, ndr) mi hanno segnato e hanno fatto di me quello che sono. Solo più tardi ho capito che però quello era un impegno di facciata. La mia svolta artistica è stata nel 1982 quando è nata mia figlia Elettra, affetta dalla sindrome di down. Grazie a lei, dovendomi scontrare ogni giorno contro i luoghi comuni e i pregiudizi, dovendo lottare per i diritti quotidiani, ho cominciato ad avere un rapporto diverso con la realtà, meno ideale. Si trattava di un impegno tangibile, fisico, e questo ha inciso anche nella mia musica, che è diventata più intimista.
Sono passati 24 anni dalla tua “Musica ribelle”, quella «che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle, che ti dice di uscire, che ti urla di cambiare… di metterti a lottare». Com’è la tua musica oggi?
Questa definizione ha un’accezione larga. Per me la musica è un modo di cercare la verità, l’assoluto. Io la chiamo tensione spirituale, ma la vivo in maniera laica. Rifletto spesso sul fatto che la musica è l’arte più vicina alla matematica, basti pensare ai tempi musicali regolati dai numeri; dunque si può dire che la musica sia vicina a una qualche esattezza. E fare musica, suonare, per me significa quindi cercare questa perfezione. Ci pensavo già da bambino, grazie alla voce di mia madre che era una cantante lirica. A Natale andavamo a Messa a Milano nella chiesa anglicana di via Solferino e quando eseguiva “Silent Night”, sentivo il suo controcanto altissimo che mi sembrava arrivasse in cielo fino a Dio.
Nel 2005 hai fatto conoscere al pubblico la tua “Anima blues”. Il blues è oggi un po’ il collante di tutti i tuoi progetti discografici?
Quell’album è stato un sogno iniziato 40 anni prima, quasi un momento liberatorio, perché mi ha dato modo di liberarmi di tante ambiguità su di me, di dire cose che non si erano capite. Il mio obiettivo è evitare di diventare la patetica presentazione infinita di quello che ero a 24 anni e inventarmi un futuro musicale dignitoso. Il rischio che corrono quelli che hanno successo da giovani è di non voler scendere mai dalla giostra. Io, invece, non cerco il successo, ma mi interesso solo della musica e mi permetto di fare sempre cose diverse.
Come sarà il concerto al “The Place”?
“Suono” è un lavoro teatrale, quindi stiamo cercando spazi adeguati, perché prevede proiezioni, un momento in cui il palco che si divide in due. Ma è anche il progetto in cui tutte le mia anime si sono ricongiunte e la colonna sonora è la summa delle canzoni cui tengo di più e quelle sì, ci saranno.
30 gennaio 2009