Claudio Baglioni “Senza musica”
Il diario di un successo iniziato sulla piazza di Centocelle, scambiando sogni e raccontando emozioni di Concita De Simone
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«Essere più che semplici musicisti, procacciatori di sogni, per sé e per gli altri. Credo sia questo il senso dell’unico, vero, grande viaggio nel quale siamo da sempre impegnati: il viaggio oltre alla collina, verso la prossima meraviglia», scrive Claudio Baglioni in “Senza musica”, il suo primo libro, in cui l’artista romano racconta se stesso attraverso le note di un diario che lo ha accompagnato in più di trent’anni di viaggi, carriera, vita. E Baglioni ha chiamato “Tutti qui” (titolo del cofanetto con tre cd che raccoglie in tutto 44 brani dal 1967 ad oggi, compreso l’omonimo inedito), per farsi ascoltare o riascoltare. «Non so se sono davvero tutti qui, ma so che sono tutti qui i pezzi senza i quali, voltandomi indietro, non riconoscerei la strada, né potrei essere la persona che sono» annuncia in copertina. E a Roma sette racconta sogni, idee, pensieri articolati lungo il filo di 38 anni da “procacciatore di sogni”. Spaziando dall’arte alla paternità, all’amore evangelico.
Da “Agonia”, come ti chiamavano al liceo, ad oggi, chi è Claudio Baglioni?
Questa domanda fatta a me è veramente difficile, ma posso dire di essere vicino alla persona che ha cominciato 40 anni fa, in un concorso fatto per gioco in una piazza di Centocelle, S. Felice da Cantalice, per la festa del Santo Patrono. Avevo 14 anni, muovevo i primi passi. Credo di non essere cambiato tanto, anche se il tempo è passato, ma non invano. Ho avuto il dono di fare un mestiere il cui vero successo è stato quello di uscire dal mio guscio e incontrare tante persone con cui scambiare sogni.
«Non so se scrivere canzoni sia un dono, un’arte o un mestiere. O un misterioso cockatil di tutte e tre queste cose», scrivi ancora in “Senza musica”. Prova a spiegarci cosa significa ricevere emozioni e scrivere canzoni, come dici tu.
Il fatto di scrivere, comporre, è già di per se stesso da un parte una raccolta di momenti positivi, perché è un momento di costruzione, talvolta anche il tentativo di scrivere qualcosa che rimanga, che resista nel tempo; dall’altra è una forma strana di emozione. Nella brevità di una canzone c’è la possibilità di “far viaggiare” le emozioni degli altri. Nelle mie canzoni, ho cercato di raccontare me stesso e a me stesso, cercando di rendere oggettive le mie esperienze.
Come arriva un ragazzo della borgata romana, che ha “contratto un debito in una cantina polverosa”, a prendere le distanze dal successo?
Cercando di non fare a gara con il proprio successo, perché non ci si deve mai misurare con qualcosa che è avvenuto e che magari è un fenomeno che non può ripetersi. Dopo un po’, in una storia come la mia, non è più essenziale la conta dei numeri, lo scalare a tutti i costi le classifiche, riproponendo anche stancamente le stesse tematiche o cercando di assomigliare a come si era trenta anni prima. L’unico modo per avere successo è avere sempre delle cose da raccontare, far succedere delle cose nuove, anche dando una spallata al muro delle convenzioni, che non significa essere per forza trasgressivi o rivoluzionari, ma poter stupire le persone. I primi anni andavo a fare gli spettacoli nelle periferie, per i baraccati. Poi ho cominciato a scrivere canzoni sentimentali, ed erano i primi degli anni Settanta, anni in cui i cantautori scrivevano cose molto impegnate. Poi quando gli altri scrivevano d’amore, io ho fatto dischi più ermetici. Mi sento un privilegiato. Racconto me stesso attraverso le canzoni. Spesso, quando nessuno ti ascolta, si ricorre a qualcuno che lo faccia e lo si paga pure. A noi cantanti bastano le canzoni.
Che effetto ti fa riascoltare le tue canzoni?
È il curioso destino delle canzoni, che per loro forma, sono espressioni brevi, rapide. Quando ascolti trentotto anni di canzoni, hai la percezione di un calendario che si srotola e ognuna di queste canzoni ha un grande potere evocativo che ti riporta indietro nel tempo oppure può farti pensare a un’emozione che deve ancora arrivare. Questa è la grande forza delle musica leggera, il fatto di affiancarsi alle persone senza invaderle troppo, senza troppo artificio, ma in maniera costante.
Tu dichiari che la tua canzone preferita, metaforicamente, è Giovanni, tuo figlio. Che padre sei?
Forse questa domanda è ancor più difficile della prima. Sono un padre che ha dovuto scontare il fatto di essere un personaggio pubblico. Ricordo una volta al Luna Park con mio figlio piccolo sulle spalle. Era più il tempo che firmavo autografi o chiacchieravo con le persone che quello che dedicavo a lui. C’era una distorsione rispetto a quello che può essere un rapporto normale. Poi però la musica mi ha fatto un altro grande regalo, perché Giovanni intorno ai dieci anni ha cominciato a suonare la chitarra. È piuttosto bravo e sta studiando ancora. La passione per la musica ci ha unito molto. Non è detto che sia il centro della sua vita, ma sicuramente è una compagna importante. Ama tutta la musica e questo ci ha permesso oltre di avere un umorismo abbastanza simile, di avere un modo comune per uscire dall’introversione, e ci ha legati molto.
“Ama il prossimo tuo è l’esortazione in assoluto più rivoluzionaria che sia stata mai fatta” dichiari in “Senza musica”. Quanto è difficile amare nel senso evangelico, gratuitamente?
Forse è il momento di impegno più difficile che ci viene chiesto, in cui bisogna essere più preparati ma anche più spontanei. Si può anche fare finta di amare il prossimo. Questo comandamento è ancora oggi la ricerca, il sogno che noi dobbiamo percorrere. Proprio oggi in un mondo mediamente infelice, con i ricchi da una parte e i poveri dall’altra. C’è molta diffidenza, sfiducia. Ci sentiamo smarriti come tanti numeretti in una gigantesca tombola. Dobbiamo capire che il nostro prossimo non è solo chi ci sta vicino ma anche chi arriverà, e amarlo è la grande scommessa che ci viene messa davanti. Il mondo non migliora da solo, dobbiamo pensarci noi.
Che potere possono avere le canzoni?
Se le canzoni avessero il potere di cambiare il mondo, avremmo risolto. L’arte e sicuramente in modo particolare la musica, in cui si ricerca il bello, l’armonia, è qualcosa di positivo. Poi, accanto a questo, c’è per noi musicisti il fatto di essere dei personaggi pubblici, ma anche dei cittadini e allora abbiamo la possibilità di impegnarci e mettere a disposizione la nostra notorietà per far riflettere le persone su temi importanti. Non esiste l’artista ma l’uomo impegnato. Ognuno sceglie degli itinerari. Io da qualche anno ho l’obbiettivo di far incontrare pacificamente le persone con la manifestazione a Lampedusa “O ‘scia”, dedicata al tema dell’immigrazione clandestina. Penso che bisogna imparare di nuovo a conoscersi e incontrarsi per abbattere la barriera dell’individualismo. Da un parte c’è chi cerca di accumulare, dall’altra chi cerca di sopravvivere. Bisogna darsi nuove intenzioni. La musica può aiutare perché è fantasia, colpisce al cuore delle persone e questo è il bersaglio più importante.
18 novembre 2005