Giampiero Maracchi
Il direttore dell’Istituto di biometeorologia del Cnr di Firenze racconta il clima che cambia. E le “colpe” dell’uomo di Francesco Lalli
Il caldo di fine giugno ha riportato alla memoria di molti la torrida estate del 2003, creando un clima d’allarmismo generale. Ma è davvero così diverso il clima di oggi rispetto a quello di qualche anno fa? Ed è una tendenza davvero immodificabile? Di questi e di altri aspetti, come il luglio che ci aspetta, ha parlato con Romasette.it il professor Giampiero Maracchi, direttore dell’Istituto di biometeorologia del Cnr di Firenze.
Professore, il clima sta cambiando, su questo la quasi totalità della comunità scientifica è d’accordo. Ma in che misura ciò dipenda dall’azione dell’uomo o da un’evoluzione del clima, come ce ne sono state molte nella storia del pianeta, sembra essere ancora un elemento di discussione da parte degli esperti. Qual è la sua opinione in merito?
Io sono un convinto assertore delle responsabilità umane. Ricordo che già nel 1980, alla prima conferenza sul clima che si tenne a Ginevra, furono impostati dei calcoli basati sull’incremento dell’anidride carbonica nell’aria, un elemento assolutamente misurabile, e su quella base si delineò un quadro in cui s’ipotizzavano un aumento della temperatura, un numero maggiore di esondazioni, ed altri aspetti che poi si sono puntualmente verificati. Nella climatologia non si fanno esperimenti in laboratorio, ma i calcoli sono risultati veritieri.
Quali sono esattamente i meccanismi che si stanno modificando, in particolare per ciò che concerne gli effetti sul nostro Paese?
Il quadro climatico è mutato nella sua generalità e per ciò che riguarda l’Italia è sempre più dipendente dalla modifica o, meglio, dallo spostamento della cella tropicale di Hadley. Mi spiego meglio. Un tempo l’aria calda saliva all’equatore e scendeva sui tropici, oggi questo fenomeno si è ampliato fin sul mediterraneo e causa il flusso di aria calda proveniente dal nord Africa. In passato l’estate era determinata, come credo tutti sappiano, dall’Anticiclone delle Azzore, attualmente spinto più a nord da questo braccio discendente della cella di Hadley. Con la conseguenza che in Inghilterra e persino in taluni Paesi scandinavi d’estate c’è un clima “mediterraneo”. Ciò nonostante, ora sembra che l’anticiclone delle Azzorre stia timidamente riprendendo la sua collocazione con la conseguenza di un luglio caldo, ma che in Italia non dovrebbe essere sopra la media del periodo.
Concretamente quali sono gli indici del cambiamento che l’Ibimet ha rilevato nella sua attività pluriennale?
Per quanto riguarda l’area del mediterraneo si possono isolare quattro aspetti principali: ondate di calore, che costituiscono un segnale estremamente allarmante, la diminuzione delle precipitazioni invernali con la conseguente siccità con cui abbiamo cominciato a fare i conti, gli slittamenti stagionali – con un autunno prolungato e una primavera anticipata – a cui si aggiunge l’intensità della pioggia concentrata in singoli episodi di grande o grandissima intensità. Basti pensare che pochi giorni fa a Firenze sono caduti in pochi minuti 50 ml di pioggia.
Con questo scenario quali sono i rischi per l’Italia?
I rischi sono già quantificati da tempo e li paghiamo tutti sotto forma di denaro: ogni anno 4 miliardi di euro, dovuti ai danni provocati dai fenomeni alluvionali strettamente legati agli sfasamenti stagionali e a quelli che interessano in primo luogo l’agricoltura.
Cina, India, Paesi sudamericani, sono realtà in rapido sviluppo industriale: c’è davvero tempo per una svolta che possa recuperare la situazione a livello globale?
Ho qualche dubbio in merito, ma bisogna continuare a sperare. Vengo da un’esperienza di pensiero liberale, però agli inizi del terzo millennio mi sono convinto che il modello dell’economia di mercato non regge, non può reggere. Non ce lo possiamo più permettere, anche perché le risorse sono limitate. Occorre cambiare registro e passare da un’economia di mercato a un’economia dei bisogni. Basti considerare, ad esempio, che con l’attuale produzione procapite di spazzatura tra 50 anni o poco più la Terra rischia di diventare un’enorme pattumiera.
3 luglio 2007