Schmitt, l’avventura del lottatore Jun
Il rapporto tra un adolescente che non vuole prendersi responsabilità e un anziano sconosciuto che gli propone di guardare con fiducia al futuro, nel nuovo romanzo dello scrittore francese di Andrea Monda
«Sai, in te vedo uno grosso». È questa la frase che ogni giorno il vecchio Shomintsu ripete al giovane Jun, un ragazzetto di quindici anni tutto pelle e ossa che vive di espedienti nei bassifondi di Tokio disertando la scuola e, ancora peggio, disertando la vita. Così parte l’ultimo romanzo del Eric Emmanuel Schmitt, prolifico e proteiforme genio narrativo (nasce drammaturgo, poi scrittore e oggi anche regista cinematografico dei suoi romanzi) che conferma la sua capacità di inventare storie sempre brillanti, curiose, fresche e mai banali.
Anche “Il lottatore di sumo che non diventava grosso”, come altri romanzi precedenti, ha come protagonista un adolescente, Jun, un ragazzo ferito, un «allergico universale» come si autodefinisce a sottolineare la sua avversione verso il mondo e soprattutto verso se stesso. A questa crisi risponde la tenacia del vecchio sconosciuto che incrocia ogni mattina (casualmente?) la strada di Jun e gli rivolge sempre la stessa «profezia» sulla sua «grossezza». A Jun che fugge dal passato e dalle sue ferite, Shomintsu propone di guardare con fiducia al futuro e vincerà la sua scommessa anche perché è lo stesso Jun ad ammettere che «sebbene sbarazzarmi della memoria non mi avesse creato grossi problemi, tanto pullulava di brutti ricordi, smettere di sognare scene piacevoli mi risultava difficile».
Nella prima parte del romanzo sarà il futuro a sanare le ferite del passato ma a un certo punto la situazione si rovescerà e il piccolo Jun dovrà, per guarire integralmente, ripercorrere quelle ferite e attraversarle. Racconto filosofico, anzi, «sapienziale», l’avventura di Jun ricorda più delle altre quello che forse è il capolavoro insuperato del romanziere francese “Oscar e la dama in rosa”: in entrambi il nodo narrativo si concentra sul rapporto tra un anziano e un ragazzo (e l’aggirare il rapporto con i genitori servirà a recuperare quella relazione così difficile) in cui il primo sta lì, come un angelo custode, a incoraggiare, guidare, sanare, e far crescere il secondo. E come Oscar anche Jun all’inizio è riottoso alla cura e alla crescita, recalcitra e sputa veleno, quel veleno che scaturisce dalle ferite ricevute per poi, alla fine dell’apprendistato, finalmente rilassarsi, riconciliarsi con se stesso e il mondo e rimettersi sulla strada giusta per diventare se stesso, uno «grosso». Il ragazzetto sbandato e denutrito delle prime pagine diventerà un lottatore di sumo abile e di successo e, soprattutto, si aprirà alla vita anche nella sua dimensione trascendente e spirituale che prima aveva solo deriso e fuggito.
Un romanzo lieve e ottimista che però ricorda, tra le agili parole dell’autore, qualcosa di grave: che il compito della vita è qualcosa di «possibile, non facile» come ricorda il vecchio Shomintsu al suo caparbio e riluttante allievo.
“Il lottatore di sumo che non diventava grosso”, Eric Emmanuel Schmitt, E/O, pp.115, 10 euro
1 marzo 2010