“Unità”, l’apertura della Porta Santa nel 2000
Il 18 gennaio di quell’anno si svolse uno degli eventi più importanti del Giubileo, con il coinvolgimento delle altre confessioni cristiane di Claudio Tanturri
«L’aspirazione all’unità va di pari passo con una profonda capacità di “sacrificio” di ciò che è personale, per disporre l’animo a una sempre maggiore fedeltà al Vangelo». Era il 18 gennaio 2000. E Giovanni Paolo II pronunciò queste parole nella celebrazione ecumenica che sancì l’apertura della Porta Santa di San Paolo fuori le Mura. Poco prima si era inginocchiato sulla soglia della basilica di via Ostiense con l’arcivescovo anglicano di Canterbury, John Carey, e il metropolita ortodosso Athanasios.
Insieme a loro aveva spinto i battenti di quella Porta Santa e aveva sostato in preghiera prima dell’inizio di una liturgia della Parola che fu definita «uno degli avvenimenti ecclesiali più importanti di tutto il Giubileo del 2000». Fu l’ultima delle quattro a essere varcata dal Santo Padre – prima di essa, Santa Maria Maggiore (1° gennaio), San Giovanni in Laterano (25 dicembre), San Pietro (nella notte tra il 24 e il 25 dicembre) -, e quel rito sancì anche l’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Per preciso volere dello stesso Giovanni Paolo II, che volle così «sottolineare la dimensione ecumenica dell’Anno giubilare». Perché «all’inizio di un nuovo millennio cristiano – spiegò durante la celebrazione -, noi dobbiamo rivolgerci con più accorata supplica allo Spirito implorando la grazia della nostra unità». «Sappiamo di essere fratelli ancora divisi – aggiunse -, ma ci siamo posti con decisa convinzione sulla via che conduce alla piena unità del Corpo di Cristo».
Furono 22 le delegazioni di Chiese cristiane che parteciparono. E molti di quei rappresentanti furono parte attiva della preghiera: proclamarono letture e attuarono gesti rituali di grande comunione. Uno fra tutti l’esposizione solenne del Libro dei Vangeli, effettuata, oltre che dal Papa, anche da un metropolita del Patriarcato copto ortodosso di Alessandria, dal rappresentante permanente del Patriarcato di Mosca in Germania e dal presidente della Federazione luterana mondiale. Dopo le letture – due bibliche (Efesini 1, 3-14 e 1 Corinzi 12), e due tratte dai testi di Georgij Florovskj, sacerdote russo ortodosso, e Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo luterano – ci fu l’omelia di Giovanni Paolo II.
In quel discorso il Papa auspicò la «unitatis redintegratio, la ricomposizione della nostra unità». Ben sapendo che «l’aspirazione all’unità va di pari passo con una profonda capacità di “sacrificio” di ciò che è personale», aggiunse, è necessario «mutare il nostro sguardo, dilatare il nostro orizzonte, saper riconoscere l’azione dello Spirito Santo che opera nei nostri fratelli, scoprire volti nuovi di santità, aprirci ad aspetti inediti dell’impegno cristiano». Impegno urgente da accogliere «come imperativo della coscienza cristiana». Perché «da esso dipende in gran parte il futuro dell’evangelizzazione, la proclamazione del Vangelo agli uomini e alle donne del nostro tempo».
La conclusione fu a braccio, con l’augurio del Pontefice a uscire dalla «basilica gridando: “Unità, unità; unité, unity”». Come avevano fatto qualche mese prima i cattolici, gli ortodossi e i protestanti evangelici raccolti in preghiera nella cattedrale di Bucarest, al termine del viaggio apostolico in Romania (7-9 maggio 1999).
21 aprile 2008