Il «Vangelo della sofferenza», convegno in diocesi
L’incontro, organizzato dal Centro diocesano per la pastorale sanitaria, tra le iniziative in preparazione alla Giornata del malato. Il direttore, monsignor Manto: «Educare alla malattia e alla sofferenza» di Christian Giorgio
«Con il loro morire ci insegnano a vivere». Don Carlo Abbate parla di un tempo di «fragilità, sensibilità, estrema umanità»; quello in cui la «domanda di senso» si fa pressante, quasi ingestibile. È il tempo della morte, quello che affrontano le persone che ogni giorno, in qualità di assistente spirituale, incontra all’hospice Villa Speranza. Nel Lazio ci sono 25 strutture di questo tipo. Qui il malato inguaribile e la sua famiglia possono trovare ospitalità in un contesto professionale in cui medici, psicologi, infermieri e volontari lavorano in sinergia. E sono stati proprio loro i protagonisti del convegno del 7 febbraio organizzato dal Centro per la Pastorale della salute diocesana dal titolo «La Chiesa di Roma e il Vangelo della sofferenza». L’incontro, al quale è seguito sabato 8 un seminario di studio sulla Salvifici Doloris, la lettera apostolica del Beato Giovanni Paolo II sul senso cristiano della sofferenza umana, si inserisce nel percorso preparatorio che porterà alla celebrazione della XXII Giornata mondiale del malato, il prossimo 11 febbraio.
Obiettivo del convegno: «Creare, sempre più, nella Chiesa e nella società civile – ha sottolineato monsignor Andrea Manto, direttore del Centro per la pastorale sanitaria -, una sempre maggiore attenzione ed educazione sui temi della sofferenza e della malattia». Tutto ciò «è ancora più importante nel contesto odierno» in cui «la medicina sembra inquinata da una forma di positivismo spinto – ha proseguito il sacerdote -, da un aberrante tecnicismo che rischia di farle perdere di vista il suo primo scopo: prendersi cura dell’uomo». Da questo punto di vista, le cure palliative, quelle che vengono somministrate negli hospice di tutto il mondo, «possono essere utili anche alla medicina che, ammalatasi di autoreferenzialità tecnoscientifica – ha riflettuto Manto -, può ritrovare in esse l’attenzione al paziente come persona».
Le cure palliative in Italia si sono sviluppate da poco più di un decennio. Secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, vengono somministrate ai pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta evoluzione è la morte. Per Adriana Turriziani, ex presidente della Società italiana cure palliative e responsabile dell’hospice Villa Speranza, «bisogna fare ancora molto per diffondere la cultura del dolore e della sofferenza; il processo del morire ci accompagna dalla nascita. Noi operatori professionali dobbiamo essere in grado di comunicarlo e di guidarlo appropriatamente». Bisogna «coinvolgere la famiglia del malato – ha continuato la professoressa -, saperci parlare, e riuscire a mettere insieme, armonicamente, il lavoro di medici, psicologi e volontari». E proprio di comunicazione, «forse il momento più difficile nel rapporto con i malati terminali», ha parlato l’antropologa Maddalena Pennacchini: «Il nostro corpo comunica anche se rimaniamo in silenzio». L’approccio dell’operatore sanitario «dovrà essere concreto, egli non dovrà infatti rapportarsi col significato della morte in generale, ma con quello delle singole morti delle quali, di volta in volta, sperimenterà egli stesso il dolore imparando ad essere empatico».
Sara Purificato, psicologa e psicoterapeuta all’hospice Terracina, ha portato con sé la manifestazione concreta di questa empatia. Ha fatto scorrere, una dopo l’altra sullo schermo della sala, le immagini dei malati terminali con cui ha avuto a che fare in questi anni: «Il corpo mostra la malattia, il corpo parla – ha detto la psicologa -. Se non riusciamo a fermarci a guardare quel corpo, facciamo fatica a comprendere l’umanità che c’è dietro». Vedere il corpo ma anche toccarlo: è il «nursing del contatto», la pratica di cui ha parlato la dottoressa Michela Guarda, coordinatrice infermieristica dell’hospice di Latina. «Educhiamo i nostri infermieri a entrare in contatto diretto con i malati – ha raccontato Guarda -, mettendo al primo posto, nelle nostre cure, l’aspetto umanistico. Al centro della nostra assistenza ci sono il paziente e la sua famiglia con i quali abbiamo un rapporto di dialogo, rispettoso e mai paternalistico».
10 febbraio 2014