Come operano e come si contrastano le mafie straniere in Italia
È il tema dello studio di Becucci e Carchedi. Latina nelle mani degli indiani; a Roma gli egiziani dietro la tratta di minori
È il tema della pubblicazione a cura di Stefano Becucci e Francesco Carchedi. Latina nelle mani degli indiani, a Roma gli egiziani dietro la tratta di minori
Silenzio e indifferenza. Gli stranieri dediti ad attività criminali nel nostro Paese agiscono con discrezione, non si fanno notare; si coprono sotto la coltre dell’omertà, figlia della paura di chi viene sfruttato, reso schiavo. Hanno poco a che fare con gli italiani, l’unico contatto avviene quando, tramite gli italiani, vogliono allargare il giro, puntando in alto: le istituzioni, la politica, infilandosi nelle larghe maglie del sistema di accoglienza che molto ha concesso (vedi Mafia Capitale) illeciti più o meno evidenti. Vittime e carnefici appartengono per lo più allo stesso gruppo etnico: i cinesi sfruttano le loro donne e taglieggiano commercianti e imprenditori cinesi; così gli indiani, che a Latina e nell’agro pontino sfruttano i loro connazionali da impiegare come braccianti nelle campagne.
È un ritratto composito e dalle più cangianti sfumature quello realizzato nella pubblicazione edita da Franco Angeli “Mafie straniere in Italia”, a cura dei sociologi Stefano Becucci e Francesco Carchedi. La presentazione è avvenuta ieri, martedì 31 maggio, nella sede dei Centri di Servizio per il Volontariato (Cesv) di via Liberiana. Con grande precisione, il volume analizza come «operano in Italia le diverse organizzazioni criminali di origine straniera», ha puntualizzato, nel suo intervento, il presidente dell’associazione Da Sud, Danilo Chirico. «Bisogna dare atto a questo studio di aver messo insieme, tempestivamente, informazioni e chiavi di lettura che mancano alla politica e alle istituzioni, per comprendere un fenomeno molto veloce e pervasivo». Di solito è sempre stato così, ha aggiunto Chirico: «Gli studiosi e la società civile sono arrivati quasi sempre prima a comprendere certe dinamiche». Come nel caso di Ostia, «dove, come associazione, siamo stati i primi a parlare di mafia da quando abbiamo scoperto, casualmente, l’esistenza di episodi estorsivi».
La situazione sul litorale romano continua ad essere molto delicata, come ha confermato Rossella Matarazzo, dirigente del commissariato di Ostia Lido: «La difficoltà più grossa sui territori mafiosi è quella di creare fiducia. Con gli immigrati è molto difficile. Bisogna rompere il muro di omertà sul quale vengono costruiti gli imperi del crimine». Una battaglia complicata «che tutti i cittadini devono fare propria», attraverso l’accoglienza e la cooperazione con le istituzioni. «Certo gli strumenti operativi non sono quelli di cui avremmo bisogno, ma la cosa più importante è innanzitutto quella di squarciare il velo e illuminare e denunciare questa realtà».
Per Francesca Danese, tornata alla sua professione di epidemiologa sociale dopo l’esperienza all’assessorato ai Servizi sociali della giunta Marino, «a Roma la situazione è incancrenita». Le città metropolitane «sono testimoni, nella migliore delle ipotesi, inconsapevoli di una moderna tratta degli schiavi». Basti pensare agli egiziani, «tanti bambini e ragazzi – ha sottolineato Danese – che vengono portati in Italia, a Roma, per farli lavorare nel mercato ortofrutticolo o per farli prostituire nei paraggi della stazione Termini». Si è fatto poco o nulla per l’integrazione, «bisogna ripartire dai dati di questo libro per dire basta all’assistenza pietistica che non libera le persone ma anzi le rende schiave delle mafie».
Quali sono i mezzi per un contrasto efficace? «A fenomeni complessi di sfruttamento si risponde con interventi altrettanto complessi – ha puntualizzato Carchedi -. All’azione preventiva delle forze dell’ordine deve affiancarsi quella delle istituzioni e della società civile». E poi, «fare come negli Stat Uniti… attori diversi per cultura professionale, per competenza, per specializzazione e funzione devono poter lavorare insieme e creare risposte adeguate». Innovazione organizzativa e uso delle tecnologie «devono poter supplire alla carenza di organici». L’assenza di risorse adeguate, infatti, «non deve mai diventare un alibi per giustificare l’inefficienza operativa di tutti i soggetti in campo, dalla politica alle forze dell’ordine».
1° giugno 2016