Gerusalemme, «l’arte del dialogo contro la strategia dello scontro»

L’arcivescovo Pizzaballa nella Messa del 1° gennaio, Giornata mondiale della pace: «La via del Vangelo, unica via d’uscita da violenza e sopraffazione»

Vocazione e profezia; preghiera e carità; dialogo e parresia. Si muove tra questi binari paralleli l’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, celebrando nella Città Santa la Messa del 1° gennaio, solennità di Maria Santissima Madre di Dio e Giornata mondiale della pace. E fa il punto su alcuni percorsi possibili per «annunciare il dialogo e la pace in maniera seria, senza retorica, concretamente e rimanendo allo stesso tempo credibili».

Il punto di partenza è la consapevolezza che «aderire alla fede cristiana non ci rende automaticamente capaci di dialogo e artigiani di pace, automaticamente capaci di uscire da noi stessi. Tutti siamo chiamati a fare questo percorso personale e comunitario, questo combattimento spirituale, che ci porta all’incontro con l’altro. Non siamo chiamati a testimoniare solo come singoli credenti il nostro desiderio di dialogo – prosegue l’arcivescovo -. Esso deve essere innanzitutto testimonianza di tutta la Chiesa, intesa come comunità e non come istituzione. Immaginare di essere Chiesa in Terra Santa evitando o fuggendo i conflitti, o tentando di risolverli con logiche non evangeliche forse preserverà le nostre strutture ma non alimenterà la fede e la speranza dei nostri cristiani».

Occorre ripartire allora dalla «vocazione che le nostre Chiese hanno in questo contesto così difficile», che significa che «in un contesto sociale e politico dove la sopraffazione, la chiusura e la violenza sembrano l’unica parola possibile, noi continueremo ad affermare la via del Vangelo come l’unica via d’uscita capace di condurre alla pace». Nelle parole di Pizzaballa, costruire la pace vuol dire «perseverare nella fede e nella intercessione». Pregare infatti è «restituire spazio a Dio in mezzo alla violenza e alla disperazione». Servizio simile alla preghiera poi è la carità: «Condividere fattivamente la fatica e la sofferenza delle vittime, dei deboli e dei poveri, con una carità viva e intelligente, che testimoni una possibilità diversa di stare al mondo».

Ancora, Pizzaballa indica la strada del dialogo ecumenico, attraverso cui «la Chiesa può diventare luogo ed esperienza della pace possibile. Se abbiamo scarsa possibilità di intervenire sui conflitti politici o di sedere ai tavoli internazionali – rimarca – abbiamo però tutte le possibilità, e il dovere, di costruire comunità riconciliate e ospitali, aperte e disponibili all’incontro, autentici spazi di fraternità condivisa e di dialogo sincero». Infine, «il dovere di annunciare: il nostro stare nel mondo è anche parresia, non può cioè esimersi dall’esprimere, nei modi propri della Chiesa, un giudizio sul mondo e sulle sue dinamiche. I nostri fedeli attendono da noi una parola di speranza, di consolazione, ma anche di verità. Non si può tacere di fronte alle ingiustizie o invitare i cristiani al quieto vivere e al disimpegno». L’opzione preferenziale per i poveri e i deboli però «non fa della Chiesa un partito politico. La Chiesa ama e serve la polis e condivide con le autorità civili la preoccupazione e l’azione per il bene comune, nell’interesse generale di tutti e specialmente dei poveri, alzando sempre la voce per difendere i diritti di Dio e dell’uomo, ma non entra in logiche di competizione e di divisione. Si impone qui un discernimento davvero difficile e mai raggiunto una volta per tutte su cosa e come parlare».

Chiaro, nelle parole dell’arcivescovo, il nesso inscindibile tra dialogo e pace: quest’ultima infatti «è al tempo stesso il frutto del dialogo ma anche la sua premessa». Richiamando il Concilio Vaticano II, Pizzaballa ha affermato che «la Chiesa ha fatto del dialogo l’asse centrale del suo annuncio»; purtroppo però «a distanza di più di 50 anni, dobbiamo registrare che i conflitti sono aumentati anziché diminuire; si è poi diffusa sempre più una mentalità individualista. A livello sociale si può parlare più di negoziazione che di dialogo. Le famiglie e in generale la coesione sociale sono diventate più fragili; aumentano le nostalgie identitarie contro il pluralismo religioso e culturale e, in generale, contro le complessità delle nostre società; le religioni sono percepite come fattori contrari alla coabitazione e fomentatrici di violenza. Anziché cercare di risolvere le questioni nell’ascolto reciproco – rimarca il presule – si fa appello alle autorità forti, che risolvano i problemi a nome nostro, risparmiandoci la fatica del percorso da fare insieme».

Anche in Terra Santa, «dobbiamo fare i conti con i fallimenti dei tanti colloqui su possibili accordi di pace tra israeliani e palestinesi, con il fallimento degli accordi già raggiunti, con la violenza continua. Dobbiamo fare i conti con la sfiducia generale per possibili nuove prospettive, per il desiderio di pace, per un cambiamento possibile. Parliamo insomma di dialogo e di pace ma sappiamo nel nostro cuore che la realtà qui è diversa e che il dialogo è lontano dalla nostra vita reale». È diventato – è la sintesi che ne fa l’amministratore apostolico – «un po’ il sinonimo di un atteggiamento irenico quanto irrealistico. Insomma questa parola è costitutiva della nostra vita relazionale a tutti i livelli, la usiamo sempre eppure sembra che non lo sappiamo fare poi così bene». Dialogo è «diventata una parola fastidiosa perché vediamo da un lato il suo uso continuo in tutti i nostri discorsi pubblici e privati ma dall’altro vediamo che la realtà è opposta a quanto diciamo continuamente».

2 gennaio 2020