I versi di Lucrezio, lezione per l’oggi
Il De rerum natura nella versione di Milo De Angelis: un linguaggio nuovo, non aulico, al tempo stesso ardito e rigoroso, con preziose annotazioni in margine ai sei libri. Teatro di un mondo infinito
Lucrezio Caro Tito, nato nel 99 avanti Cristo e scomparso intorno al 55, fra tutti i poeti latini di gran lunga il più moderno e prossimo alla nostra sensibilità ferita dal relativismo e alla nostra cultura minata dal senso di vanità, continua a inchiodarci al muro per via del suo capolavoro: il poema in esametri, catalogazione peraltro secondo molti inadeguata, De rerum natura, pubblicato postumo da Cicerone in una forma che, con ogni probabilità, l’autore non ebbe modo di rivedere, riscoperto e ricopiato da Poggio Bracciolini nel 1417 all’interno dell’abbazia benedettina di San Gallo, nei pressi del lago di Costanza.
Da sempre quest’opera cardine della civiltà occidentale, base tassiana, leopardiana e vichiana, per citare solo alcuni snodi della letteratura italiana, abita e prospera nel cuore e nella mente di Milo De Angelis il quale oggi, dopo un lavoro lungo e faticoso, paziente e furente, appassionato e certosino, fuori e dentro se stesso, iniziato sin dalla giovinezza con la tesina di Maturità, ci consegna la sua versione finale ( De rerum natura, Mondadori, 2022, 24 euro), in un linguaggio nuovo, non aulico, al tempo stesso ardito e rigoroso, di cui davvero sentivamo l’urgenza, regalandoci pure, oltre alle pagine introduttive, alcune preziose annotazioni in margine ai sei famosi libri.
Lucrezio, dicevo, non lascia scampo perché, liricamente divulgando Epicuro, sentenzia la nostra sorte smagata: «È indiscutibile che la natura degli dei in quanto tale / vive la propria immortalità nella pace più grande: / estranea alle nostre vicende, che non la riguardano, / fuori da ogni dolore e da ogni pericolo, forte / delle proprie risorse e senza alcun bisogno di noi, / non è sfiorata né dalla nostra ira né dai nostri meriti». Per questo l’uomo saggio non brama poteri, onori e ricchezze: «A noi basta poco. Basta sdraiarci sull’erba tenera con gli amici». Vibra potente nei versi lucreziani, filtrati dallo sguardo inedito del più radicale fra i poeti contemporanei, il magma in cui siamo immersi: «Perciò nessuna cosa ritorna al nulla e tutte le cose, / disgregandosi, ritornano agli elementi della materia». È impossibile chiamarsi fuori: «Nulla di ciò che sembra finire si conclude veramente: / la natura rinnova un essere con un altro e per far nascere / una cosa si fa aiutare dalla morte di un’altra cosa».
È il teatro di un mondo infinito, senza frontiere, né limiti, dove gli atomi si formano e frantumano, i flussi vanno e vengono dentro la carne, i cadaveri putrefatti diventano un covo di vermi, i simulacri si staccano come pellicole dalla superficie dei corpi e volteggiano qua e là nell’aria. Al vagito dei neonati succede il pianto delle sepolture: «E d’altra parte tutti noi siamo nati da un seme celeste / e tutti noi abbiamo come padre il cielo». Ciò non ci deve rattristare: «La vita è data in prestito a tutti ma non è proprietà di nessuno».
20 giugno 2022