Il tempo della pandemia, tra “futuro” e “avvento”
Il vescovo di Pinerolo Olivero – toccato direttamente dal coronavirus – e don Asolan, preside del Redemptor hominis, a confronto con la comunità di San Giuliano
Il tempo della pandemia, e l’impatto che sta avendo anche sulle comunità cristiane, ha suggellato lo stato di crisi della Chiesa o sta modificando un certo modo di vivere la fede e può considerarsi dunque un’occasione propizia? Questo interrogativo, ieri, 9 marzo, ha guidato la riflessione della seconda di una serie di “Conversazioni serali intorno alla pandemia” che la parrocchia di San Giuliano martire, sulla via Cassia, sta curando da remoto come «tentativo per non sprecare questo tempo, vivendolo nel confronto, a partire da alcune domande di senso», ha sottolineato aprendo i lavori il parroco don Massimo De Propris.
Chiamati a offrire stimoli per pensare in profondità, moderati da don Francesco Cosentino, docente di Teologia fondamentale alle Pontificie Università Gregoriana e Lateranense, sono stati il vescovo di Pinerolo Derio Olivero e don Paolo Asolan, preside dell’Istituto “Redemptor hominis“, afferente all’ateneo del Laterano, e incaricato per la formazione permanente del clero della diocesi di Roma.
«A contare non è ciò che capita – ha esordito Olivero, che è stato toccato direttamente dal coronavirus all’inizio del primo lockdown di un anno fa – ma come si reagisce a ciò che capita» e rispetto alla pandemia «come Chiesa rischiamo di rimanere passivi in modo cinico e anacronistico» mentre «si tratta di un’occasione per chiederci davvero che cosa Dio ci stia suggerendo con questo tempo speciale, che cosa ci stia chiedendo, coniugando verità e storia». Il presule ha argomentato il suo pensiero in quattro passaggi: per prima, la provocazione del filosofo e teologo ceco Tomas Halik, che «ha osservato come le chiese vuote viste in tempo di pandemia sono un’anticipazione della realtà che ci troveremo a vivere tra 30 anni se non cambiamo. Detto con uno slogan: o si cambia o si muore».
Ancora, Olivero ha constatato come «in un tempo così tragico, di precarietà e sofferenza, le persone non hanno cercato in massa le parole della Chiesa come primo riferimento» perché «talvolta sono parole logore, che non significa parole sbagliate o non vere – ha chiosato -. Sono semplicemente parole che hanno fatto onorevolmente il loro servizio ma, oggi, si rivelano parte del processo di esculturazione che la Chiesa vive». Ciò equivale a «essere fuori dalla cultura umana in senso antropologico – ha continuato il presule -, lontani cioè dal modo degli umani di stare al mondo. Bisogna quindi cambiare stile, trovandone uno più concreto e meno teorico, capace di affascinare con la bellezza, oltre che con la verità».
In terzo luogo, per il vescovo di Pinerolo «la pandemia ci ha fatto capire, basti pensare alle attività proposte on-line, come sia possibile organizzare l’azione pastorale in modo più ampio, realizzando quella “Chiesa in uscita” auspicata dal Papa», laddove «non dobbiamo uscire per riportare dentro i confini, dobbiamo invece allargare i confini stessi». Infine, Olivero ha notato come questo ultimo anno fatto di più tempo trascorso nell’ambiente domestico «ci ha ricordato che la casa non è un ambiente neutro rispetto alla fede: contiene simboli e riti che non si vivono solo in comunità ma anche personalmente»; da qui l’invito a «valorizzare una sorta di “delivery della pastorale”», cioè il «fornire qualcosa che nutre la fede anche a casa, non solo in occasione dei momenti comunitari».
Ha incentrato la sua riflessione sulla ricerca del senso vero di questo tempo di pandemia, «da vivere come tempo messianico, capace di imprimere un vero cambiamento e una svolta nella nostra vita», don Asolan, ricordando la distinzione «tra “futurum”, cioè lo spazio in cui proiettare i nostri progetti, e “adventus”, ossia il tempo come strada attraverso la quale Qualcuno – il Messia – ci sta venendo incontro, suggerendoci i suoi progetti per noi, quelli che da soli non sapremmo immaginare». La pandemia, allora, «non è stato e non è un tempo da riempire – ha sottolineato -: siamo stati messi davanti a un “segno dei tempi”, da cogliere sia personalmente che comunitariamente, come Chiesa», a dire che «cogliendo questo tempo come messianico e non come apocalittico possiamo comprendere come Dio, venendoci incontro e raggiungendoci, lavora dall’interno il tempo che cronologicamente scorre, conferendogli senso, al di là della nostra umana pretesa di averne il dominio e il controllo».
10 marzo 2021