La società civile e la Siria che non si arrende

Al Centro Astalli l’incontro dedicato alla risposta della popolazione al quarto anno di conflitto. La scelta di fare rete, per salvare la vita e la civiltà

Al Centro Astalli l’incontro dedicato alla popolazione al quarto anno di conflitto. In un Paese smembrato dalla guerra, la scelta di fare rete, per salvare la vita e la civiltà

«Ci sono persone che mettono a rischio la propria vita per insegnare ai bambini nascosti sotto terra. Bisogna sostenere le inziative della società civile, dare loro voce. Ci sono bambini che rischiano di perdere la loro storia. Io ho visto il tempio di Baal, però un bambino non lo potrà più conoscere». Lo ha raccontato Eva Ziedan, archeologa siriana e rappresentante della società civile, venerdì 2 ottobre alla platea della sala Assunta del Centro Astalli, nell’ambito di un incontro organizzato insieme al Magis. La società civile non si arrende e combatte, per salvare non solo la vita ma la civiltà della Siria. La cartina è un insieme di parti di colore diverso, in costante cambiamento, ha spiegato Lorenzo Trombetta, inviato dell’Ansa a Beirut, indicando le aree occupate dall’Isis. Il Paese è smembrato dalla guerra, diviso al suo interno tra est e ovest, sotto il regime di Bashar al-Assad, attraversato dai ribelli, e vittima dell’espandersi del Califfato del terrore. Eppure «in Siria le comunità diverse erano abituate alla convivenza, al saper vivere con l’altro», spiega il giornalista. Mentre sembra impossibile che le lotte si fermino, e delicati equilibri geopolitici internazionali si giocano tra Russia e Stati Uniti, i siriani, quelli che restano, hanno deciso di andare avanti e di fare rete per non perdere la loro storia. «Dobbiamo ricordarci che quelli che prendono il mare per salvarsi e quelli che restano sono persone, hanno una dignità» ha ribadito Ziedan.

Restare è difficilissimo. «Molti giovani tra i 30 e i 40 anni hanno lasciato questa terra – ha spiegato Antonella Palermo, giornalista di Radio Vaticana chiamata a moderare -, non si può ottenere il certificato di laurea se non si fa il servizio militare, con il rischio di finire in prigione». Ahmed, di Aleppo, anche lui parte della società civile, ha raccontato la situazione della sua città, divisa a metà dal 2012 da quello che è stato definito “corridoio”: «Ogni giorno passavano centinaia di persone attraverso questo corridio, per andare a lavorare, poi venne preso di mira da cinque cecchini e un mio amico è morto. Quattro appartenevano al regime, uno alle fazioni armate».

«Come società civile non siamo tutti gli uni contro gli altri», ha tenuto a sottolineare l’archeologa. «Anche se da quando si è avviato il movimento di militarizzazione è ancora più difficile – ha spiegato Ziedan – proviamo ad aiutare tutti. Siamo in tutta la Siria. Esistono siriani che cercano di trovare questo spazio per salvare i diritti e fermare la guerra. Questo spazio esiste, anche se ogni giorno è in pericolo sempre di più». Dare un’istruzione ai bambini è un compito sempre più difficile: «Raccontiamo ai piccoli le tradizioni, i dialetti. In una città abbiamo organizzato un coro a cui abbiamo insegnato le canzoni delle nostre tradizioni popolari». Le donne svolgono un ruolo fondamentale: «Nell’area occidentale della Siria slcune donne hanno deciso di unirsi per aiutare coloro che sono rimasti; le donne velate non restano a casa come siamo abituati a immaginare». Un’organizzazione, la loro, che non si occupa solo di prestare soccorso, ma che diventa la resistenza delle persone comuni: «Una donna ha chiesto di incontrare un capo di brigata per chiedergli di vedere suo figlio imprigionato. I soldati le hanno risposto che non la voleva ricevere perché era una donna. Assieme a lei allora si sono mosse altre donne, e sono riuscite a costringere il capo a farle vedere suo figlio».

La domanda cruciale, posta dalla giornalista di Radio Vaticana, resta sempre la stessa: «Cosa possiamo fare per aiutare?». Di fronte a eventi così lontani infatti il rischio è avere l’impressione di non poter fare nulla, ma per i rappresentanti della società civile siriana non è così: «Pressione politica – ha risposto Ziedan -. È l’unico modo per fermare questo bagno di sangue».

5 ottobre 2015