Rohingya, «no al rimpatrio senza sicurezza»
L’intervento di Save the Children all’indomani dell’accordo tra i governi di Bangladesh e Myanmar. La richiesta di un meccanismo indipendente per monitorare la protezione dei rifugiati e di garanzie per l’accesso umanitario
All’indomani dell’accordo tra i governi di Bangladesh e Myanmar, che prevede l’avvio del rimpatrio dei rifugiati Rohingya entro un paio di mesi, Save the Children torna sulla condizione di questa minoranza ribadendo che il rimpatrio «non può cominciare se prima non verrà garantita la sicurezza nello Stato di Rakhine e se non verrà avviato un chiaro processo per accertare le responsabilità delle gravi violazioni dei diritti umani commesse in Myanmar». Attualmente, in Bangladesh vivono circa 835mila rifugiati Rohingya, di cui 630mila fuggiti dal Myanmar a partire dal 25 agosto scorso.
Dall’associazione arriva la richiesta dell’istituzione di «un meccanismo indipendente e sostenuto a livello internazionale per monitorare la protezione dei rifugiati», insieme a quella di «garantire l’accesso umanitario senza ostacoli e impedimenti» in tutto lo Stato di Rakhine. «Non siamo ancora del tutto consapevoli della vastità degli orrori subiti sulla propria pelle dalla comunità Rohingya – afferma Mark Pierce, direttore di Save the Children in Bangladesh -. Abbiamo raccolto testimonianze di donne stuprate subito dopo aver partorito e dei loro figli buttati nel fuoco, bruciati vivi. Donne che per sopravvivere avevano come unica possibilità quella di fuggire attraverso la giungla e strisciare nel fango per giorni. È semplicemente orribile pensare di far ritornare queste persone, in particolare le più vulnerabili, nei luoghi dai quali sono fuggite, senza alcuna garanzia per la loro sicurezza, lasciandole ancora una volta in balia dei loro persecutori ed esponendole a ulteriori inimmaginabili orrori».
In occasione della riunione speciale del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite sulla crisi dei Rohingya, Save the Children chiede dunque ai membri del Consiglio di «condannare senza esitazione le gravissime violazioni dei diritti umani avvenute in Myanmar» e di assicurare alla giustizia «i responsabili delle atrocità commesse». Il rimpatrio, sostengono dall’organizzazione, «non potrà avvenire in maniera forzata ma alle persone dovrà essere garantita la possibilità di scegliere di fare ritorno in Myanmar in maniera sicura, dignitosa e su base volontaria, nel rispetto degli standard internazionali e con il coinvolgimento dell’Agenzia Onu per i rifugiati».
5 dicembre 2017